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Il costo ambientale della moda e la via per ridurlo

L’industria della moda ha un alto impatto ambientale, ma non serve rinunciare al consumo, bisogna cambiare modello di business

Produrre in grande quantità e basso costo, ha quasi sempre delle ripercussioni sulla qualità e, nel caso dell’industria della moda, anche sull’ambiente. Oggi, l’industria della moda si posiziona al secondo posto della classifica dei grandi inquinatori, di cui l’aviazione detiene il podio, e questo è dovuto in buona parte alla crescita esponenziale della “fast-fashion” ovvero quel circuito di produzione e consumo che si basa su produzioni a basso costo e uso di materia prima di scarsa qualità che produce abiti usa e getta destinati ad un utilizzo di breve periodo. 

Spesso si condanna l’intero mondo della moda, svalutando così anche quelle realtà in cui la ricerca delle materie prime, l’intuizione, la creazione artistica e ricerca del dettaglio compongono un insieme di attività messe in atto coscienziosamente e con bassi impatti ambientali. Quello sul quale bisognerebbe interrogarsi invece è la tendenza, ormai consolidata, all’acquisto da parte dei consumatori, di più indumenti di bassa qualità e a basso costo, utilizzabili solo poche volte e destinati a diventare rifiuti nel breve periodo. Questa tendenza ha portato al consolidamento del modello di business ormai predominante della fast-fashion. 

Per farci un’idea, di quanto sia dannoso per l’ambiente questo modello di business, analizziamo gli impatti dell’industria della moda, concentrandoci sull’uso dell’acqua, dell’inquinamento chimico, delle emissioni di anidride carbonica e dei rifiuti tessili.

Schematizzando gli impatti, pubblicati per esteso su Nature, si riassume che l’industria della moda:

  • è il secondo maggiore consumatore di acqua, si stima il consumo medio di 1,5 trilioni di litri all’anno
  • è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento idrico industriale dovuto al trattamento e alla tintura dei tessuti. Molte sostanze chimiche utilizzate nella produzione tessile sono dannose non solo per l’ambiente ma anche per gli operai che lavorano in paesi in cui manca una adeguata regolamentazione sulla sicurezza sul lavoro
  • contribuisce a circa il 35%, pari a 190.000 tonnellate all’anno, dell’inquinamento da microplastiche dell’oceano
  • produce grandi quantità di rifiuti tessili, superiori alle 92 milioni di tonnellate all’anno, molti dei quali finiscono in discarica, vengono bruciati (compresi i prodotti invenduti) o portati nei paesi in via di sviluppo. La maggior parte degli impatti ambientali si verificano nei paesi produttori di tessuti e abbigliamento, ma i rifiuti tessili si trovano in qualsiasi parte del globo
  • produce fino al 10% delle emissioni globali di anidride carbonica, superando l’1,7 miliardi di  tonnellate all’anno

Per ridurre questi impatti ambientali si rende necessaria una decelerazione della produzione e l’introduzione di pratiche sostenibili ad ogni step della supply chain. Ad ultimo, ma non di minor importanza, parallelamente alla conversione del modello di business deve esserci uno spostamento del comportamento dei consumatori consistente in una riduzione dello scarto degli abiti dopo un breve lasso di tempo. 

Questi cambiamenti portano alla transizione verso lo “slow-fashion”, che minimizza e mitiga gli impatti ambientali dannosi, in modo da migliorare la sostenibilità a lungo termine della catena di approvvigionamento della moda.

Elisabetta Ruffolo

Elisabetta Ruffolo (Milano, 1989) Laureata in Public Management presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Milano. Head of communication di MeteoExpert, Produttrice Tv per Meteo.it, giornalista e caporedattrice di IconaClima. Ha frequentato l’Alta scuola per l’Ambiente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per il Master in Comunicazione e gestione della sostenibilità.

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