Consigli di lettura: “Il Green new deal” di Ann Pettifor
Il saggio dell'economista britannica ci spiega cos’è e come possiamo finanziare il Green new deal
L’ultimo libro dell’economista britannica Ann Pettifor non è solo un saggio dedicato al tema attualissimo del Green New Deal, ma è anche qualcosa in più: in questo agile libretto, un vero e proprio inno alla figura e agli insegnamenti di John Maynard Keynes, i profani di economia come chi scrive, possono trovarvi riassunti i principali eventi storico-economici che hanno segnato il ventesimo secolo (dal New Deal di Roosevelt, agli accordi di Bretton Woods nel dopoguerra, per finire con l’epoca attuale caratterizzata dal capitalismo globalizzato).
Condensarne in poche righe i contenuti è impresa impossibile: vorremmo dunque provare a incuriosire il lettore traendone qualche spunto significativo nello sforzo di iniziare a comprendere la più grande sfida che l’umanità ha davanti a sé, quella di dirottare in pochissimi anni il sistema economico dal sentiero attuale, che porta dritti verso il collasso ecologico e climatico, sul binario della sostenibilità.
Come sappiamo, il tempo a disposizione per cambiare passo si assottiglia ogni giorno di più mentre bruciamo il piccolo budget di carbonio rimanente prima del superamento di soglie climatiche pericolose, nella speranza di non averlo ancora fatto. Una trasformazione del sistema così veloce e radicale potrebbe apparire una follia ad ogni ben pensante. La Pettifor non ci nasconde affatto le difficoltà, ma spiega come potrebbero essere affrontate, in analogia con quanto è avvenuto in passato con le grandi crisi legate a guerre mondiali e collassi economici.
Gli esempi del passato: il New Deal
Il New Deal fu inaugurato dal presidente statunitense Roosevelt all’indomani della grande depressione globale iniziata nel 1929. Nota da meteorologo: come se non bastasse, gli USA in quegli anni erano alle prese anche con una grave crisi climatica locale, nota come il “Dust Bowl”! Roosevelt smantellò il gold standard e applicò le teorie keynesiane ponendo fine all’austerità e alla disoccupazione. Uno dei punti su cui l’autrice insiste più assiduamente è che “il sistema finanziario – in quanto sistema – esiste precisamente per permetterci di fare ciò che possiamo fare” e “oggi, come ieri, deve tornare a svolgere il suo ruolo di servo, non di padrone dell’economia e dell’ecosistema”.
Il Green New Deal e il ruolo della finanza
Gli obiettivi del Green New Deal (GND), sono quelli di abbandonare le fonti fossili e di salvaguardare gli ecosistemi naturali che sostengono la vita del Pianeta. La finanza deregolamentata degli ultimi decenni, argomenta l’autrice, ha facilitato la creazione di quantità enormi di credito gonfiando bolle finanziarie e alimentando consumi insostenibili dal punto di vista ambientale. La ricerca di tassi di rendimento eccessivi sugli investimenti ha spinto a “spogliare le foreste, svuotare i mari e sfruttare il lavoro al fine di rimborsare gli onerosi debiti”. Tuttavia, sottolinea ancora l’autrice, il sistema monetario di una società è, o almeno dovrebbe essere, come il suo sistema fognario, cioè un grande bene pubblico. Da qui, inevitabilmente, la critica al processo iniziato tra gli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, che ha portato i governi a perdere il controllo di questo sistema a favore di un’autorità privata: “il mercato”. Tra le altre critiche mosse alla finanza globale deregolamentata (e sganciata dal controllo delle autorità democratiche) l’autrice cita anche la sua complicità nel fomentare la corruzione, la piaga dei “paradisi fiscali” e, non secondariamente, l’amplificazione delle diseguaglianze sociali (legate all’accumulo di enormi ricchezze nelle mani della “piccola minoranza che opera nel settore finanziario”). Va da sé che ristabilire una forte autorità pubblica sui sistemi monetari e finanziari deve diventare un obiettivo irrinunciabile all’interno del GND per poter finanziare la costosa transizione energetica verso le fonti rinnovabili e attenuarne gli impatti sociali e occupazionali.
L’economia ecologica e di stato stazionario, critiche al dogma della “crescita” e al PIL
Nel saggio si richiamano più volte gli studi di Herman Daly, pioniere dell’economia ecologica e di stato stazionario. L’economia ecologica considera il sistema economico come sottoinsieme del più grande ecosistema globale, alimentato dall’energia del sole (un’ovvietà, direte, ma è un assunto completamente ignorato dagli economisti ortodossi) . In questo sistema dove le risorse sono limitate e dove, come in natura, “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, non esistono muri o confini nazionali (si pensi ai gas climalteranti nell’atmosfera) e pertanto il GND dovrà assumere per quanto possibile una scala globale. Viene tuttavia osservato che non tutti hanno le stesse responsabilità: il 10% della popolazione globale è responsabile da sola del 50% delle emissioni di gas-serra globali. Il suggerimento che se ne trae è che l’azione del GND dovrebbe concentrarsi su questo 10%: agendo sulle (cattive) abitudini di questo piccolo gruppo di persone sarà più probabile ottenere importanti riduzioni delle emissioni. Il concetto di stato stazionario di un’economia è abbastanza intuitivo, e in più nel saggio lo si illustra con un esempio significativo colto dal mondo reale, il caso del Giappone. Ecco quindi le osservazioni di un giornalista del Financial Times, Pilling, che suonavano più o meno così: “… visto attraverso la lente degli economisti, il Giappone era un vero fallimento …”, mentre a tutti gli effetti quel Paese godeva e gode tuttora di uno dei più alti tenori di vita del mondo sviluppato, aveva bassi livelli di criminalità, buon cibo, una lunga aspettativa di vita ecc.. L’obiettivo della critica è dunque soprattutto il PIL, quel “singolo numero totemico” … “un numero che è la forza trainante dietro il culto della crescita esponenziale ed infinita”. L’autrice nota che il problema non consiste tanto in quel numero, bensì “nel modo in cui lo calcoliamo (…) e ancor più nell’ideologia della crescita infinita, non nell’unità di misurazione”.
L’economia del GND: no ai desideri illimitati, autosufficienza, un’economia mista ad alta intensità di lavoro
Un punto chiave del nuovo approccio è capire quali servizi potrà fornire la nuova economia: a questo proposito la Pettifor insiste sull’importanza di soddisfare i bisogni umani, non i desideri. Come ben sappiamo, a differenza dei bisogni (cibo sano, abitazione, salute, istruzione…) i desideri sono spesso indotti dal marketing e sono virtualmente illimitati, da cui l’esito inevitabile del sovra-sfruttamento delle risorse e del collasso eco-climatico. In questo contesto, secondo l’autrice, le nazioni dovranno puntare per quanto possibile all’autosufficienza: “mentre le idee, la conoscenza, le invenzioni e l’arte saranno internazionali, le merci saranno fatte in casa”. Lo strumento migliore per realizzare il Green New Deal, sempre secondo l’autrice, è un’economia mista pubblico-privato: “lo Stato intraprende le attività che richiedono un’azione collettiva (ad esempio il rimboschimento), mentre il mercato facilita la transazione di beni e servizi …”. La scommessa del GND è anche quella di un’economia ad alta intensità di lavoro: “tutte quelle attività che non potranno essere alimentate dall’energia del sole saranno intraprese dall’energia umana”. Con la promessa, inoltre, di “premiare la forza-lavoro con compiti che abbiano un’utilità reale e di dotarla con competenze, formazione e un’istruzione superiore”.
Finanziare il Green New Deal, aspetti critici della carbon tax, il ruolo dei risparmi
Il saggio dedica molto spazio, e non potrebbe essere diversamente, al modo in cui il GND potrà essere finanziato. Si tratta di considerazioni spesso piuttosto tecniche che per essere comprese fino in fondo richiederebbero le competenze di un “addetto ai lavori”. Secondo l’autrice, innanzitutto, è necessario “invertire la gerarchia neoliberista che vede la politica monetaria in un ruolo di primo piano rispetto alla politica fiscale”; “… le istituzioni e le politiche fiscali dello Stato lavoreranno in tandem per sostenere la società nel suo insieme, e non solo il settore finanziario”. “Per ottenere la piena occupazione le autorità monetarie, tramite la banca centrale, forniranno prestiti e depositi a governi, banche, e fondi pensione”. Inoltre (quantitative easing), le banche centrali avranno il ruolo di acquistare obbligazioni sufficienti per garantire che il rendimento dei titoli di Stato rimanga basso e che il debito rimanga sostenibile. Qui, ancora una volta, entrano in scena gli insegnamenti di Keynes secondo cui “quando un governo prende denaro in prestito, il debito che viene generato – cioè un debito del paese nei confronti dei proprio cittadini – è una cosa molto diversa dal debito di un privato cittadino. E’ una questione macroeconomica, non microeconomica. La nazione è l’aggregato dei cittadini che la compongono (…) e dover loro dei soldi non è molto diverso dal dovere dei soldi a se stessi.” In definitiva, i sistemi di creazione del credito saranno bilanciati dalle entrate fiscali ottenute dall’occupazione, nell’ambito di un sistema finanziario in stato stazionario. Nel contesto del GND, infine, le autorità pubbliche utilizzeranno i prestiti per sostenere gli investimenti in attività produttive che ridurranno progressivamente la dipendenza dell’economia dalle fonti fossili. A questo riguardo è interessante sottolineare lo scetticismo dell’autrice nei riguardi della carbon tax: da molti invocata come un tassello fondamentale per incentivare la de carbonizzazione, questa tassa potrebbe risultare regressiva e scaricarsi sulle fasce di popolazione più deboli (impossibile non pensare alla Francia e ai “gilet gialli”). Per essere efficace, insomma, una tassa del genere dovrebbe essere rivolta a chi produce il grosso delle emissioni globali ed il riferimento, ancora una volta, è verso quel 10% di ricchi che da soli emettono il 50% del totale dei gas climalteranti globali. Per usare le parole della Pettifor, che cita uno studio del professor Kevin Anderson, “portare le emissioni di carbonio dei ricchi alla media europea (non del Malawi!) sarebbe già un passo in avanti (…) anche se il restante 90% della popolazione non facesse nulla le emissioni di carbonio verrebbero ridotte del 30%.” In aggiunta, l’autrice sottolinea come il credito non debba essere necessariamente l’unica fonte di finanziamento per gli investimenti dell’autorità pubblica, poiché nel mondo esistono, usando le sue parole, “quantità sconcertanti di risparmi”, pubblici e privati, nascosti nei fondi più disparati (si porta ad esempio il fondo sovrano norvegese) che potrebbero e dovrebbero essere opportunamente mobilitati a favore della transizione ecologica.
Ci avviamo alla conclusione. Quello del Green New Deal sembra un libro dei sogni: trasformare nello spazio di pochi anni un’economia estrattiva, basata sullo sfruttamento delle risorse naturali e umane, incurante delle sue conseguenze, in un sistema sostenibile e più umano, e che attenui le diseguaglianze. Un utopia? Può darsi. Dà speranza sapere che l’umanità in passato ha già raccolto e superato enormi sfide di portata globale, si pensi alla ripresa dopo la Seconda Guerra, al piano Marshall. Secondo Andrew Simms, uno degli autori della proposta del GND britannico, “questa non è solo un crisi di proporzioni sistemiche, ma anche una crisi di immaginazione”. O ancora, con le parole di Wandra Vrasti, “per decenni ci hanno raccontato che non c’è alternativa, che il capitalismo liberale è l’unico modo razionale di organizzare la società; questo ha atrofizzato la nostra capacità di immaginare forme di vita sociale che mettano in discussione la logica del profitto”.