I ghiacciai italiani sono aumentati, ma non è una buona notizia
Tra ghiacciai frammentati, ghiacciai neri e ghiacciai colonizzati dalla vegetazione, un ritratto di ciò che resta del nostro prezioso patrimonio d’alta montagna.
I ghiacciai alpini sono una risorsa idrica preziosa, una riserva d’acqua per l’irrigazione e la produzione di energia idroelettrica, essenziale durante le estati più siccitose. Sono il simbolo dell’alta montagna, luogo di interesse per turisti, escursionisti e alpinisti. La loro riduzione, in atto da circa 150 anni, ma con una drammatica accelerazione nell’ultimo ventennio, è diventata ormai agli occhi di tutti la manifestazione più evidente del cambiamento climatico.
Oltre all’impatto economico legato alla produzione idroelettrica, il ritiro dei ghiacciai ha un notevole impatto sul paesaggio, sulla biodiversità e sulla stabilità idrogeologica dell’alta montagna. Aggiornare con continuità lo stato delle conoscenze in questo campo è pertanto di grande importanza, anche al fine di programmare adeguate azioni e politiche di adattamento ai cambiamenti in atto.
Metamorfosi della neveIl processo di formazione del ghiaccio di ghiacciaio è assai lungo. Inizia al di sopra del limite delle nevi perenni con la metamorfosi della neve che, compressa sotto il proprio peso, espelle l’aria contenuta negli interstizi e si trasforma in una massa sempre più compatta di cristalli di ghiaccio. Prima si forma la neve granulare (densità 0.3 g/cm³) e poi il Firn (densità 0.5 g/cm³). Questa metamorfosi è più rapida quando la neve è sottoposta a diversi cicli di fusione e di rigelo, più lenta se la temperatura rimane costantemente bassa: impiega anche vent’anni in Groenlandia. La trasformazione del Firn in ghiaccio è ancora più lenta, può richiedere decenni, e dipende sempre dalle temperature. Avviene per ulteriore compattazione sotto accumuli di neve dello spessore di diverse decine di metri, quando i vuoti presenti nella massa non sono più intercomunicanti, l’aria rimane intrappolata in bolle e la densità del ghiaccio raggiunge 0.91 g/cm3. Sulle Alpi l’intero processo di trasformazione da neve a ghiaccio impiega circa un decennio, un secolo in Antartide. |
I ghiacciai sono sensibili indicatori del cambiamento climatico
Il ghiacciaio è un indicatore ambientale estremamente sensibile e fornisce segnali attendibili e rapidi sui mutamenti climatici a livello locale e globale. Il suo ciclo di vita è infatti fortemente condizionato dalle nevicate invernali, che alimentano la massa nei settori superiori (bacino collettore), e dalle temperature estive, che determinano la perdita di massa per fusione nei settori a più bassa quota (bacino ablatore).
Il materiale perso per fusione nei settori inferiori viene ripristinato dalla massa che il ghiacciaio trasporta nel suo naturale scivolamento verso valle. Se la massa persa per fusione nei settori inferiori è maggiore della massa accumulata nel bacino collettore (bilancio di massa negativo) il ghiacciaio si ridurrà, sia assottigliando il proprio spessore, sia ritirando progressivamente verso monte il suo limite inferiore, la fronte glaciale. La risposta del ghiacciaio non è immediata, ha una inerzia di 10-30 anni, e occorrono diversi anni di bilancio negativo per assistere ad una regressione.
Come ampiamente documentato dalla comunità scientifica, sull’intera catena alpina, e non solo, il regresso glaciale in atto sta progressivamente distruggendo i ghiacciai, provocando l’estinzione di quelli più piccoli e la frammentazione di quelli più grandi.
Novecentotre testimoni del clima che cambia: il catasto dei ghiacciai italiani
I dati sull’evoluzione dei ghiacciai in Italia vengono raccolti e divulgati dal Comitato Glaciologico Italiano (CGI), fondato nel 1895 dal Club Alpino Italiano, in collaborazione con enti regionali e provinciali.
Uno strumento importante per monitorare lo stato dei ghiacciai e valutare l’impatto del cambiamento climatico è il catasto, cioè l’inventario delle unità glaciali presenti nell’area di studio. L’Italia vanta una lunga tradizione in questo campo, iniziata quasi un secolo fa con il primo censimento sistematico dei ghiacciai italiani, tra i più antichi catasti glaciologici esistenti a livello mondiale. L’elenco comprendeva 773 ghiacciai alpini e 1 ghiacciaio Appenninico, il Ghiacciaio del Calderone, nel massiccio del Gran Sasso, tra i ghiacciai più meridionali d’Europa.
Il CGI, in collaborazione con il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), fra il 1959 e il 1962 pubblicò il Catasto dei Ghiacciai Italiani, che individuò, tra ghiacciai e glacionevati (piccoli corpi glaciali privi di movimento), 835 unità, con una superficie totale di circa 500 km2. Negli anni ’80 del secolo scorso fu realizzato il World Glacier Inventory (WGI), il catasto internazionale dei ghiacciai, con il quale vennero censiti, per l’Italia, 1381 apparati glaciali estesi su un’area di 609 km2. Nel periodo analizzato (1965-1985) si ebbe dunque una modesta fase di espansione glaciale, che portò ad un lieve aumento del numero e della estensione dei ghiacciai alpini.
Il più recente inventario, il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani, pubblicato nel 2015, è nato nell’ambito di un progetto realizzato dal Gruppo di Glaciologia dell’Università Statale di Milano, in collaborazione con il CGI e con il coinvolgimento di numerosi enti regionali e provinciali. Si basa sull’analisi di ortofoto a colori ad alta risoluzione e di immagini da satellite, riprese fra il 2005 e il 2011.
L’analisi rivela la presenza sulle montagne italiane di 903 apparati glaciali (fra ghiacciai e glacionevati), distribuiti su tutti i settori alpini per una superficie totale di 369 km2 . Le regioni più glacializzate sono la Val d’Aosta (134 km2 ), la Lombardia (88 km2 ), l’Alto Adige (85 km2 ) e il Trentino (46 km2 ). Sul Gran Sasso sono rimasti solo due piccoli glacionevati: ciò che resta del ghiacciaio del Calderone dopo la frammentazione avvenuta vent’anni fa.
L’84% dei ghiacciai è di piccole dimensioni, inferiori a 0.5 km2, caratteristica che li rende particolarmente sensibili anche ai piccoli cambiamenti climatici. Insieme coprono il 21 % della superficie totale. I ghiacciai più estesi di 1 km2 sono solo il 9.4 % del numero complessivo, ma coprono più di due terzi dell’area glaciale italiana.
I ghiacciai montani, annidati alle quote più elevate, e i glacionevati, caratteristici della fase iniziale o terminale del glacialismo, rappresentano il 97 % di tutti gli apparati glaciali italiani. Il restante 3 % è costituito dai ghiacciai vallivi, caratterizzati da una lingua glaciale che scende fino a quote relativamente basse.
Il confronto con i dati raccolti negli anni ‘50 del secolo scorso ha evidenziato una riduzione areale complessiva dei ghiacciai di circa il 30 %. Le perdite più rilevanti hanno colpito le regioni in cui i ghiacciai erano meno estesi, come il Friuli e il Veneto, che hanno perso metà del loro prezioso patrimonio; più contenuta invece la riduzione nelle regioni che ospitavano e tutt’ora ospitano i ghiacci più estesi, come la Valle d’Aosta (-26%) e la Lombardia (-24%).
Le campagne di monitoraggio e gli archivi fotografici
Il monitoraggio della salute dei ghiacciai italiani non è affidato solo all’analisi degli inventari. Dal 1911, ogni anno, al termine della stagione estiva, il CGI organizza una campagna glaciologica di rilevamento e osservazione, integrata da una ricca raccolta di documentazione fotografica. Decine di volontari ogni anno controllano circa 150 ghiacciai campione. Qui i risultati della campagna glaciologica 2019/2020.
Esistono inoltre numerosi progetti, come la “Carovana dei Ghiacciai”, la campagna di Legambiente realizzata con il supporto scientifico del Comitato Glaciologico Italiano, che, dopo l’avvio del 2020, tra il 23 agosto e il 13 settembre 2021 ha monitorato lo stato di salute di tredici ghiacciai alpini italiani e del glacionevato appenninico del Calderone, allo scopo di sensibilizzare le persone sugli effetti del cambiamento climatico nell’ambiente glaciale.
Ghiacciaio del Gran Sasso sempre più piccolo: oggi esteso come 3 campi da calcio |
“Sulle tracce dei ghiacciai” è invece un progetto che “ coniuga comparazione fotografica e ricerca scientifica al fine di divulgare gli effetti dei cambiamenti climatici grazie all’osservazione delle variazioni delle masse glaciali negli ultimi 150 anni. Con sei spedizioni nell’arco di 10 anni destinate ai ghiacciai montani più importanti della Terra (Karakorum 2009, Caucaso 2011, Alaska 2013, Ande 2016, Himalaya 2018, Alpi 2020), il progetto ha lo scopo di sostenere studi originali e di realizzare nuove riprese fotografiche dallo stesso punto di osservazione, e nel medesimo periodo dell’anno, di quelle realizzate dai fotografi-esploratori di fine ‘800 e inizio ‘900”.
Frammentazione, darkening e alberi epiglaciali: la trasformazione del paesaggio d’alta quota italiano
L’intenso regresso glaciale in atto su tutta la catena alpina sta portando non solo ad una vero e proprio “smantellamento” dei ghiacciai, ma anche ad una rapida trasformazione del paesaggio dell’alta montagna.
La frammentazione dei ghiacciai in più corpi minori è dovuta alla riduzione dello spessore del ghiaccio a seguito di un bilancio di massa quasi sempre negativo nei decenni precedenti, con conseguente affioramento di rocce nei settori più ripidi che, progredendo, in pochi anni riesce a separare il ghiacciaio in più tronconi. E’ ormai un fenomeno diffuso, soprattutto nei ghiacciai vallivi, ed ha portato al paradossale aumento del numero dei corpi glaciali, che ora consta di 68 unità in più rispetto a sessanta anni fa. E’ il caso, ad esempio, dei ghiacciai Lex Blanche e la Brenva sul Monte Bianco, il Lys sul Monte Rosa, il Ventina e il Fellaria Orientale sul Bernina-Disgrazia, il Forni e il Careser sull’Ortles-Cevedale, ed altri ancora.
A questo fenomeno si aggiungono il collasso delle zone frontali, dove si aprono crepacci e caverne, e la formazione di laghi di contatto glaciale, la cui presenza accelera il regresso della fronte glaciale.
Le pareti rocciose rimaste scoperte a causa della riduzione della copertura glaciale e nevosa, esposte ai cicli di gelo e disgelo si disgregano (crioclastismo), ricoprendo di detriti la superficie glaciale sottostante, che perde il suo candore e si “annerisce”.
I detriti che provocano l’annerimento (darkening) dei ghiacciai hanno diversa dimensione e granulometria e comprendono anche le polveri trasportate dalla circolazione atmosferica, come le polveri sahariane, alcuni organismi, come le alghe, e il particolato di origine antropica derivato dalla combustione incompleta dei combustibili fossili.
Quando la copertura detritica è formata da piccole particelle, ed ha uno spessore limitato, provoca un maggiore assorbimento della radiazione solare, che va ad aumentare la fusione. Quando invece la copertura è continua e con uno spessore di almeno 5-10 centimetri (“ghiacciaio nero”), la fusione viene rallentata in quanto l’energia termica solare non supera la barriera di detriti, ed il ghiacciaio riesce a sopravvivere più a lungo. Ne è un esempio il ghiacciaio del Miage, in Valle d’Aosta, sopra il quale, grazie alla spessa coltre di detriti, sta crescendo una foresta di larici.
Oltre a documentare gli effetti del cambiamento climatico in atto, la presenza di alberi epiglaciali consente di ottenere, mediante l’analisi degli anelli di accrescimento, preziose informazioni non solo climatiche, ma anche glaciologiche. Dopo la loro germinazione, infatti, gli alberi scivolano verso valle insieme al ghiacciaio che li ospita, effettuando una sorta di registrazione annuale dei movimenti del substrato.
Il darkening è un fenomeno sempre più frequente sulle Alpi e in altre parti del Pianeta.
Studi recenti condotti con l’impiego di immagini aeree ad alta risoluzione hanno permesso di rilevare un incremento della copertura detritica sui ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale (Parco dello Stelvio) da circa il 17 % nel 2003 al 30 % nel 2012.
Il progressivo annerimento della lingua del ghiacciaio dei Forni, tra i più grandi ghiacciai delle Alpi italiane, è confermato anche dai dati ad altissima risoluzione acquisiti dai satelliti e dai droni.
Le Alpi resteranno senza i loro ghiacciai?
Le proiezioni modellistiche non restituiscono scenari futuri ottimistici circa la salute dei nostri ghiacciai. Le estati roventi come quelle degli ultimi cinque o sei anni, dopo la caldissima estate del 2003, e gli inverni con scarsissime precipitazioni, come quello 21-22, rappresentano un duro colpo per le masse glaciali. I ricercatori ritengono assai probabile che il regresso glaciale proseguirà e accelererà nei prossimi anni e decenni, fino all’estinzione dei ghiacciai piccoli e medi. I ghiacciai più grandi, come il Ghiacciaio dei Forni, da alcuni anni già frammentato in tre spezzoni, potrebbero vedere il proprio volume dimezzato entro fine secolo. “Se non interverrà un deciso mutamento del sistema meteoclimatico, con un incremento delle precipitazioni invernali e una riduzione delle temperature estive – spiega Claudio Smiraglia, membro del CGI e glaciologo dell’Università Statale di Milano -, il paesaggio dei prossimi decenni delle nostre Alpi vedrà solo qualche ghiacciaio residuo nei circhi di alta quota, come avviene attualmente per i Pirenei”
L’intervento umano, con l’utilizzo di coperture geotessili capaci di riflettere la radiazione solare, secondo molti ricercatori non serve a frenare il ritiro dei ghiacciai, e rappresenta un rischio in termini di dispersione di microplastiche.
L’unica arma che abbiamo per aiutare i ghiacciai, l’intera criosfera e tutto il sistema Terra è contrastare il riscaldamento globale.