Perché la neve è una componente fondamentale del sistema climatico locale e globale?
L’inverno è una delle stagioni che ha subito il maggior calo di precipitazioni: la stima negli ultimi 60 anni è di circa il 7% di precipitazioni in meno ogni dieci anni.
La neve, la copertura nevosa (e dei ghiacci), è una componente importante nel bilancio energetico del sistema climatico. Più è estesa la copertura nevosa, più energia solare viene riflessa con conseguente tendenza a raffreddamento della superficie; viceversa, meno copertura nevosa significa minor riflessione dei raggi solari e quindi maggior assorbimento di energia solare da parte della superficie terrestre che di conseguenza tende a scaldarsi. È un processo di feed-back positivo: le conseguenze del global warming, in questo caso lo scioglimento dei ghiacci polari e dei ghiacciai montani, amplificano il fenomeno stesso.
La neve stagionale e i ghiacciai in montagna sono fondamentali nella regolazione dei bilanci idrici dei corsi d’acqua che vanno ad alimentare i numerosi serbatoi di acqua dolce essenziali durante i mesi primaverili ma soprattutto estivi. Uno dei momenti più belli che la natura offre nell’arco dell’anno, è senza dubbio quello del disgelo primaverile, quando i corsi d’acqua si ingrossano di acqua zampillante e freddissima e la natura si risveglia. Questo momento è molto importante perché permette di fruire, per gli usi più diversi, della riserva d’acqua precedentemente congelata come neve. Sono decine e decine i bacini idrografici densamente popolati per cui il disgelo primaverile rappresenta la fonte più importante di acqua dolce. Possiamo affermare che le montagne ci dissetano, offrendo tra il 60 e l’80% dell’acqua potabile del mondo.
Per gli ecosistemi la neve ha l’importante ruolo di costituire uno strato isolante protettivo contro il freddo estremo, mantenendo nello strato di suolo sottostante una temperatura adeguata ad esempio per il letargo di molte specie.
Dati alla mano, com’è l’andamento delle precipitazioni nevose negli ultimi anni? Si è di fronte a una diminuzione della sua caduta? Perché?
L’inverno è una delle stagioni che ha subito il maggior calo di precipitazioni: la stima negli ultimi 60 anni è di circa il 7% di precipitazioni in meno ogni dieci anni. Dai quantitativi degli anni ‘60-‘70 si sono persi circa 45 mm nelle precipitazioni invernali, compresa quindi una frazione importante di neve in meno rispetto al passato. Questa diminuzione è legata a un cambiamento a più vasta scala che riguarda il Mediterraneo e che vede una maggior frequenza di presenza di aree anticicloniche, quindi, sostanzialmente, un aumento dei periodi siccitosi (considerando gli ultimi 60 anni, delle 10 grandi siccità che hanno interessato l’Italia, 5 si sono verificate negli ultimi 20 anni, è grossolanamente raddoppiata la frequenza – l’ultima grave siccità nel 2022 cominciata proprio in inverno).
Se poi si considera l’aumento delle temperature invernali, i dati ci dicono che in Italia gli attuali inverni sono mediamente 1.1°C più caldi degli inverni degli anni ‘60-’70. Questo significa che lo zero termico si è alzato mediamente di circa 200 metri, diminuendo, così, la probabilità di nevicate a bassa quota.
Più nello specifico, negli ultimi 120 anni, le temperature delle Alpi sono cresciute di circa 2 °C, il doppio della media globale; gli studi suggeriscono un ulteriore aumento di 2 °C nei prossimi 40 anni. Sull’arco alpino, rispetto a 100 anni, fa la neve si è spostata in alto di almeno 500 metri; una volta era possibile sciare dai 1000 metri in su, mentre oggi è raro vedere una buona stagione sotto i 1500 metri e per trovare un buon innevamento per l’intera stagionale invernale bisogna quasi sfiorare i 2000 metri. L’aumento di temperatura invernale, che coinvolge anche le Alpi, è chiaramente legato al più generale riscaldamento globale del Pianeta. Si può quindi affermare che il rialzo delle temperature porterà ad avere un limite delle nevicate sempre più alto, riducendo così la riserva di acqua dolce stoccata in montagna con la neve.
Qual è il futuro della neve?
Con i cambiamenti in atto e previsti, si va incontro a una continua diminuzione degli eventi nevosi, specie alle basse quote e in particolare nelle aree di pianura: anche il nostro Paese non è esente da questo trend, nevica sempre meno ad esempio sulle pianure del Nord Italia. Paradossalmente, ad alta quota nelle regioni settentrionali, gli eventi nevosi potrebbero diventare più abbondanti proprio a causa della tendenza all’intensificazione delle precipitazioni, ma sempre nell’ottica di una durata inferiore del manto nevoso, ossia di una fusione più rapida in un contesto di accelerazione del ciclo dell’acqua previsto dai modelli climatici.
In ogni caso, anche in futuro, continueranno a verificarsi importanti irruzioni di aria fredda che in inverno si potrebbero tradurre in nevicate a bassa quota soprattutto nel settore adriatico e al Sud. Con l’Artico che si sta riscaldando circa il triplo rispetto al media globale, si è infatti ridotto il gradiente termico tra nord e sud all’origine delle intense correnti atmosferiche che alle nostre latitudini soffiano da ovest verso est seguendo traiettorie ondulate nel senso dei meridiani; sono queste ondulazioni, note come onde di Rossby, che determinano le incursioni di aria fredda di origine polare verso le latitudini più basse e la risalita verso nord di aria calda sub-tropicale. La riduzione di questo gradiente si tradurrebbero in un rallentamento e indebolimento delle onde di Rossby e un concomitante aumento della loro ampiezza in senso meridiano; tale anomalia della circolazione atmosferica favorirebbe, anche in un contesto di riscaldamento globale, la discesa di aria fredda verso sud (e di aria calda verso nord).
Sempre meno neve. Esiste un modo per prevenire questa diminuzione?
La strada da intraprendere è quella limitare il riscaldamento globale mitigando il cambiamento climatico. L’impegno a livello locale non è sufficiente, occorrono delle politiche concordate a livello globale.
È necessario innanzitutto ridurre le emissioni dei gas serra derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili più green. La quota di energie rinnovabili nel consumo finale di energia dell’UE dovrebbe aumentare al 42,5% entro il 2030. Nel 2021 l’UE ha reso la neutralità climatica, ovvero l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, giuridicamente vincolante. Ha fissato un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. Questo obiettivo di zero emissioni nette è sancito dalla legge sul clima. Il Green Deal è la tabella di marcia della UE affinché diventi neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. Dato che l’energia è la principale fonte di emissioni di gas a effetto serra, è fondamentale agire anche sul miglioramento dell’efficienza energetica: l’obiettivo della UE è migliorare del 32% l’efficienza energetica entro il 2030.
La transizione verso un’Europa a emissioni zero entro il 2050 significa riconsiderare anche l’intero ciclo di vita dei prodotti: promuovere il consumo sostenibile e l’economia circolare. Ciò dovrebbe portare a una riduzione del consumo di risorse, meno sprechi e meno emissioni di gas serra.
Infine, è possibile combattere il cambiamento climatico anche grazie alla conservazione della biodiversità e al ripristino della natura. Le foreste, ad esempio, giocano un ruolo cruciale nell’assorbimento e nella compensazione delle emissioni di carbonio. A tale scopo, nella primavera di quest’anno il Parlamento dell’UE ha adottato norme per impedire che l’importazione di merci che abbiano contribuito alla deforestazione o al degrado forestale in qualsiasi parte del mondo. La salvaguardia della biodiversità e il ripristino degli ecosistemi naturali sono fondamentali per migliorare la capacità di stoccaggio del carbonio, mitigare i cambiamenti climatici e aumentarne la resilienza.
Precipitazioni sempre più rare ma anche ghiacciai che si sciolgono, a cosa è dovuto questo fenomeno? Dal punto di vista climatico quali effetti può avere?
È chiaro che il processo fa parte dei cambiamenti climatici innescati dal riscaldamento globale. Tra gli effetti
abbiamo una minore estensione dei ghiacci che porta a un maggior assorbimento energia e a un maggior riscaldamento.
Con la fusione del permafrost alle alte latitudini abbiamo la liberazione del gas metano intrappolato sotto e dunque un aumento dell’effetto serra e un maggior riscaldamento; la riduzione della copertura nevosa e di ghiacci nell’emisfero nord comporta una modifica della circolazione atmosferica.
La fusione ghiacci artici marini e della Groenlandia determina acqua meno densa sul nord Atlantico e un rallentamento corrente del Golfo con conseguenze sull’Europa occidentale
Alcuni dati da evidenziare sono che la copertura nevosa in molte aree dell’emisfero settentrionale dura un mese in meno rispetto a 40 anni fa. Da metà del secolo scorso i ghiacciai montani (esclusi quelli polari) a livello globale hanno perso circa 30 metri di spessore. Negli ultimi 20 anni la Groenlandia ha perso 5000 miliardi di tonnellate di ghiaccio e l’Antartide 2500 miliardi di tonnellate. I ghiacci marini artici si riducono del 12% ogni 10 anni. Negli ultimi 80 anni i ghiacciai alpini si sono ritirati anche più di 500 metri. Dagli anni ’60 la superficie dei ghiacciai italiani si è ridotta del 30%.
A cura di Simone Abelli e Daniele Izzo.