Causa Greenpeace-Shell, il gigante del petrolio fa un passo indietro
Shell patteggia la causa milionaria che ha intentato contro Greenpeace. «Grazie alla pressione di migliaia di persone l'azienda petrolifera ha fatto marcia indietro», commenta l'organizzazione
L’azienda petrolifera Shell e l’organizzazione ambientalista Greenpeace hanno raggiunto un accordo extragiudiziale risolvendo la causa multimilionaria che il colosso del petrolio ha intentato l’anno scorso nel Regno Unito. Shell aveva infatti minacciato di citare in giudizio Greenpeace per 2,1 milioni di dollari di danni dopo che alcuni attivisti erano saliti a bordo di una piattaforma mobile al largo delle Canarie, restandoci per per 13 giorni. Tra risarcimenti e costi legali, Greenpeace rischiava di dover sborsare più di 11 milioni di dollari.
L’accordo finale prevede che l’organizzazione ambientalista non riconosca alcuna responsabilità e non paghi niente alla Shell, versando invece 360 mila euro all’organizzazione non profit Royal National Lifeboat Institution, che si occupa di soccorso in mare. Greenpeace si è impegnata anche a sospendere le proteste in quattro stabilimenti della Shell nel Mare del Nord settentrionale.
Il portavoce di Shell ha detto che «il diritto di protestare è fondamentale e non è mai stato in discussione. Invece, questo caso riguardava un abbordaggio illegale da parte di manifestanti che un giudice dell’Alta corte ha descritto come ‘mettere a rischio le loro vite e, indirettamente, le vite dell’equipaggio’».
Greenpeace, invece, descrive questa causa come una Strategic Lawsuit Against Public Participation (SLAPP), una tipologia di azioni legali avviate da grandi aziende per intimidire e silenziare chi si oppone criticamente al loro operato. L’organizzazione assicura inoltre che intende continuare la sua campagna contro Shell, anche sulle attività estrattive del colosso fossile nel Mare del Nord, con l’esclusione degli stabilimenti previsti dall’accordo, siti «in gran parte in declino, dove Greenpeace non avrebbe comunque pianificato ulteriori azioni di protesta».
«Shell pensava che farci causa per milioni di dollari ci avrebbe intimiditi, ma questa azione legale si è trasformata in un boomerang mediatico», ha dichiarato Areeba Hamid, co-direttrice esecutiva di Greenpeace UK: «la reazione pubblica contro l’atteggiamento prepotente del colosso petrolifero ha costretto Shell a fare marcia indietro e a risolvere la questione fuori dalle aule del tribunale».
L’organizzazione ha inoltre denunciato come le cause intimidatorie siano sempre più diffuse. Un fenomeno che purtroppo tocca anche l’Italia, che secondo l’ultimo report annuale appena pubblicato dalla coalizione CASE, SLAPPs in Europe: Mapping Trends and Cases, è il Paese UE in cui si è registrato il maggior numero di azioni di questo tipo, ben 26 nel solo 2023. Un trend che gli autori del report definiscono “preoccupante”.
Greenpeace sta affrontando anche altre minacce legali negli Stati Uniti e in Italia. Nel nostro Paese l’organizzazione è stata infatti citata in giudizio, insieme a ReCommon, dalla società petrolifera ENI che ha accusato gli attivisti di aver orchestrato una “campagna d’odio” contro l’azienda.
«La mediazione raggiunta nel Regno Unito dimostra che per quanto i colossi dei combustibili fossili cerchino di zittire chi si batte per l’ambiente, la giustizia e la forza della collettività possono prevalere», dichiara Simona Abbate, campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia. «Anche in Italia non ci arrenderemo finché le aziende inquinanti come ENI non abbandoneranno definitivamente l’estrazione di combustibili fossili, puntando seriamente sulle energie rinnovabili, e non si assumeranno la responsabilità dei danni che stanno causando alle persone e al pianeta».
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