Coronavirus: perché il cambiamento climatico favorisce le epidemie
Le alterazioni climatiche e il consumo di territorio mettono in crisi gli ecosistemi, aumentando il rischio di pandemie
Ormai la comunità scientifica è concorde sul fatto che il nuovo Coronavirus sia stato trasmesso all’uomo da un animale, nello specifico un pipistrello. Insieme alla maggior parte delle minacce sanitarie che hanno interessato di recente la nostra società, come l’Aviaria, l’Ebola, la Sars, l’Hiv e le influenze stagionali, il Covid-19 è cioè un esempio di zoonosi, termine che identifica la trasmissione di virus, batteri e altri agenti patogeni fra uomo e animali. Abbiamo descritto i meccanismi e le principali cause di questo processo nell’articolo di approfondimento Contagi e animali, conoscere la zoonosi.
La causa del passaggio di virus e batteri dagli animali all’uomo è il contatto ravvicinato fra le due specie (morsi, scambio di fluidi, alimentazione, etc.) che spesso si verifica in ambienti dove vengono ad esempio macellati o venduti animali, spesso selvatici, in condizioni tutt’altro che igieniche. Questo è ciò che molto probabilmente è avvenuto nell’ormai tristemente famoso mercato di Wuhan.
Il consumo del suolo e le pandemie
Accanto a manipolazione e commercio degli animali selvatici, però, favorisce il contatto fra uomini e animali la sempre più aggressiva distruzione degli habitat per mano umana. Essa avviene per due motivi principali:
- La crescita esponenziale della popolazione, che porta l’uomo a cercare nuovi spazi, con vere e proprie città in espansione spesso a ridosso degli habitat delle specie selvatiche;
- La necessità umana di procacciarsi il cibo, che implica un sempre più vasto impiego di suolo per agricoltura e allevamento, esacerbato dall’aumento della popolazione e dalla forte domanda di carne e prodotti diari, in crescita soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Come se questi due fattori non bastassero, esiste un terzo fattore, profondamente interconnesso con i precedenti: si tratta del cambiamento climatico. La desertificazione galoppante in certe aree del Pianeta e l’alterazione dei parametri climatici medi riduce gli spazi disponibili all’uomo per l’abitazione, l’agricoltura e l’allevamento, e alle specie animali per la loro sopravvivenza. Dennis Carroll, esperto di malattie infettive del Centers for Disease Control e coordinatore di molti degli interventi dei governi statunitensi contro le epidemie da zoonosi, ha affermato:
Land-use change is the biggest driver of risk.
Il cambiamento nell’utilizzo del territorio costituisce il maggior contributo al rischio di pandemie.
Ma andiamo con ordine.
Perdita di biodiversità e diffusione dei patogeni
Quando, per far spazio a pascoli o terreni agricoli, vengono tagliati, ad esempio, ettari di bosco, viene ridotto il territorio a disposizione delle specie animali che lo abitano. Queste si ritrovano affollate in spazi più piccoli, cosicché risulta favorito il contagio di patogeni fra le diverse specie o fra individui della stessa specie. Spesso gli animali devono poi attraversare zone abitate dall’uomo per poter spostarsi da una parte all’altra del loro habitat ormai frammentato, entrando così, probabilmente, in contatto con l’uomo.
Se poi queste specie, già sotto stress, si trovano a dover affrontare condizioni climatiche atipiche, come ad esempio un arrivo anticipato della primavera, sono probabilmente destinate a soccombere. Si assiste cioè a perdita di biodiversità, causata quindi direttamente dalle attività umane o dal cambiamento climatico da esse prodotto. Lo scorso anno, la United Nations Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) ha affermato che in pochi decenni sparirà un milione di specie. Anche questo fenomeno favorisce la zoonosi. Perché? Perché le specie che prosperano in caso di perdita di biodiversità sono proprio le più indicate a trasmettere i patogeni: ratti, pipistrelli e altre creature dalle caratteristiche simili.
Gli animali più grandi infatti, i predatori in particolare, hanno bisogno di vasti territori per sopravvivere: muoiono quindi facilmente quando i loro habitat vengono colpiti. Questi animali hanno vite relativamente lunghe e danno alla luce un numero ridotto di cuccioli. Le specie più piccole e infestanti, invece, come i pipistrelli e i ratti, tendono a riprodursi molto più velocemente e a vivere vite più brevi. Queste specie tendono cioè a concentrare le proprie energie nel riprodursi anziché nella sopravvivenza dei singoli individui e hanno quindi sistemi immunitari particolarmente deboli, così da costituire una base perfetta per la proliferazione dei patogeni. La distruzione degli habitat causata dall’espansione agricola e urbana e dal cambiamento climatico favorisce perciò la proliferazione di queste creature eliminando i loro predatori (le specie più grandi) e le raggruppa in piccoli spazi, facilitando il contatto – e il contagio – fra di loro e fra specie diverse.
Il cambiamento climatico aiuta le specie infestanti
Il cambiamento climatico è pertanto un importante fattore di stress, dal momento che mette in difficoltà sia l’uomo che le specie animali. Queste difficoltà riguardano le condizioni ottimali di vita (ad esempio le temperature) e la disponibilità di cibo. L’uomo reagisce alla difficoltà nel procacciarsi il cibo sfruttando nuovi territori fertili che soppiantano i vecchi (in genere più a nord) e riduce così ulteriormente gli habitat, aumentando ancora di più la pressione sugli animali. Le specie infestanti allora proliferano e gli spazi ridotti favoriscono la contaminazione uomo-animale.
Pandemie e alimentazione
La crescita economica porta con sé, in genere, un aumento della domanda di prodotti diari e carne. L’allevamento è una delle maggiori cause di consumo del territorio (sia per il pascolo che per la coltivazione del foraggio) e di emissione di gas climalteranti (creati ad esempio negli intestini degli animali o durante la produzione e il trasporto del mangime): questo settore occupa un terzo del terreno agricolo mondiale e produce il 15% delle emissioni di gas serra mondiali. Chiaramente la dieta attuale e il modo in cui evolveranno le nostre abitudini alimentari avranno un impatto non indifferente sul consumo di suolo e sul cambiamento climatico e quindi, rispettivamente, un impatto diretto e indiretto sugli habitat. Tutto ciò non farà altro che esporci a un rischio crescente di pandemia.
Insomma, il cambiamento climatico, l’economia, l’ambiente, le nostre abitudini e la nostra salute sono profondamente interconnessi. Ridurre le proprie emissioni e il consumo di suolo associato alla propria sopravvivenza (ad esempio variando la propria dieta) non è solo un atto di amore verso il Pianeta o le generazioni future, ma è, soprattutto, un atto di amore verso noi stessi e la nostra salute.
Cosa si può fare, quindi, per abbassare il rischio di essere uccisi dal prossimo virus pandemico? Occorre affrontare il prima possibile e con determinazione il cambiamento climatico, con azioni di adattamento e mitigazione, che possano restituire alle future generazioni un mondo più sano e più sicuro.