Il nucleare contro la crisi climatica? Prospettive e possibili strategie
Intervista a Marco Ripani, dirigente di ricerca dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
Negli ultimi mesi la conversazione sul nucleare sta tornando più accesa che mai, ma l’opinione pubblica resta divisa: per alcuni l’energia derivante da centrali nucleari potrebbe essere una alternativa fattibile per compiere la transizione energetica, per altri il nucleare resta una soluzione troppo rischiosa, costosa e tutt’altro che sostenibile.
Per approfondire il funzionamento delle centrali, le nuove tecnologie in via di sperimentazione, le alternative attuali e le prospettive del settore energetico, abbiamo fatto qualche domanda al Dirigente di ricerca dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), il Dott. Marco Ripani.
La Commissione Europea ha recentemente proposto di far entrare il nucleare nella tassonomia energetica dell’UE perché potrebbe “facilitare la transizione verso un futuro basato principalmente sull’energia rinnovabile”. Secondo lei l’energia nucleare dovrebbe essere considerata una buona opzione per la transizione energetica?
Sì, senz’altro. Tutto dipende sempre dagli obiettivi che ci si pone, e da quanto in realtà si riesca a mettere in atto misure tali da raggiungere quegli obiettivi. Si fanno spesso proiezioni sul futuro che però hanno ampi margini di incertezza perché poi bisogna vedere in pratica cosa uno riesce a fare. Sicuramente ci sono una serie di organizzazioni che ritengono che si possa raggiungere rapidamente entro una certa data la neutralità climatica utilizzando ad esempio le energie rinnovabili. Questa strategia, secondo alcune valutazioni, richiede uno sforzo gigantesco: si tratta di aumentare la produzione di energia rinnovabili di fattori importanti. Questo ci porta a ragionare sul fatto che si tratta di proiezioni e obiettivi. Ma saranno realistici? Io ritengo che gli obiettivi che ci siamo dati sono estremamente ambiziosi e anche nella comunità tecnico scientifica ci sono forti dubbi che si riesca a raggiungere la neutralità climatica entro date così stringenti, utilizzando soltanto le rinnovabili.
E’ assodato che l’energia nucleare è un’energia quasi a emissioni zero, confrontabile con quella derivante da vento e sole. Dipende dai tempi, e bisogna avere chiaro di cosa si sta parlando: se parliamo di installare nuovi impianti bisogna tenere presente che le tempistiche per costruire un impianto di generazione attuale richiedono alcuni anni. In Europa e negli Stati Uniti purtroppo stiamo assistendo a tempi estremamente lunghi: oltre dieci anni. E questo dipende da una serie di fattori: si tratta di impianti nuovi, mai costruiti prima: nel costruirli si sono presentati problemi non preventivati e che vanno affrontati. Il nucleare inoltre è soggetto, più di molte altre fonti, a ispezioni e regolamentazioni molto stringenti. Si fa per la sicurezza, ovviamente, ed è per questo che i tempi si dilatano.
Tassonomia UE: la transizione verde apre al nucleare? |
Quale potrebbe essere la strategia migliore?
Sarebbe più rapido prolungare la vita degli impianti già esistenti. Da una parte sarebbe necessario salvaguardare gli impianti già esistenti, prolungandone la vita. Gli impianti nucleari ricevono una autorizzazione, la cosiddetta licenza, che dura un tot di anni, e viene rinnovata. Nella maggior parte dei casi si parla di una quarantina d’anni, ma recentemente, in diversi Paesi e in particolare negli Stati Uniti, si è deciso di considerare il prolungamento della vita fino a 60-80 anni. Questo viene fatto dopo ispezioni, sostituzioni di parti usurate eccetera, ma è un processo più rapido di quello necessario per sostituire un nuovo impianto. Questo è già stato fatto, in molti casi, e quindi permette di utilizzare impianti già esistenti, aggiornandone lo stato e i sistemi di sicurezza, e prolungandone la vita. Quello che a mio parere non bisogna fare è spegnere in anticipo gli impianti. Bisognerebbe invece tenere e aggiornare quelli esistenti e programmare la costruzione di nuovi impianti.
Gli impianti di nuova costruzione oggi si trovano tutti in Paesi considerati in via di sviluppo: ce ne sono molti in Cina, qualcuno in Russia, e gli Emirati Arabi hanno costruito il loro primo impianto. In Cina i tempi di costruzione sono particolarmente rapidi, nell’ordini di 5-6 anni. Nell’occidente la costruzione di impianti nuovi richiede circa 10 anni. Per questo bisogna decidere oggi.
Ci sono gli impianti di nuova generazione, di varie tipologie, che richiedono tempi forse ancora più lunghi. I reattori piccoli, modulari, sono ancora in corso di procedure autorizzative: per loro magari i tempi di costruzione potrebbero essere più veloci, ma prima bisogna arrivare a dei modelli approvati. Gli impianti di quarta generazione sono, invece, impianti grossi su cui c’è molta attività di ricerca e sviluppo. Ce ne sono un paio in funzione in Russia, ma per una approvazione servirà qualche anno.
I tempi di ricerca e sviluppo si potrebbero accelerare: recentemente Europa e Stati Uniti hanno investito sempre meno nella ricerca sul nucleare. E purtroppo il nucleare non è un tipo di industria dove si più fare “stop-and-go”. Con uno stop al nucleare i giovani non vanno più a studiare ingegneria nucleare, le competenze svaniscono, la gente va in pensione. Non si può ripartire con uno schiocco delle dita. E’ tutta una questione di programmazione che è estremamente importante.
Quali sono le alternative oggi per quanto riguarda gli impianti nucleari e la gestione delle scorie radioattive?
Semplificando, i reattori nucleari attuali a fissione funzionano praticamente quasi tutti con raffreddamento ad acqua e moderazione. Dalla reazione di fissione si liberano dei neutroni, che a loro volta causano altre fissioni in una reazione a catena che, tenuta sotto controllo, tiene il reattore acceso. I neutroni sono molto efficaci nel produrre la fissione se vengono rallentati. I neutroni che escono dal processo di fissione quando il nucleo viene disintegrato, sono molto veloci. Rallentandoli, facendoli attraversare mezzi leggeri come acqua o grafite, sono molto efficaci nel produrre altre reazioni di fissione. Questo processo ha però degli svantaggi: i neutroni, rallentati, producono un certo tipo di rifiuti nucleari radioattivi, e molti di questi hanno una vita molto lunga.
La maggior parte delle scorie che derivano dalla reazione, i cosiddetti frammenti di fissione (cesio, stronzio), hanno vite abbastanza brevi, ossia dell’ordine di qualche decina d’anni. La loro radioattività quindi sparisce in circa un centinaio d’anni. I depositi costruiti per ospitare questo tipo di rifiuto, infatti, di solito è pensato per durare 300 anni.
Quando l’uranio assorbe i neutroni senza produrre una fissione dà vita ad una serie di reazioni che producono plutonio e altri nuclei più pesanti, che hanno vite molto più lunghe: migliaia o decine di migliaia di anni. Sono nuclei che, se smaltiti, vanno tenuti per periodi molto più lunghi, in un deposito sotterraneo, un deposito geologico: le scorie di questo tipo vengono così sotterrate centinaia di metri sotto terra, in formazioni rocciose molto stabili, dove ci sia poca circolazione di acqua e stabilità sismica, in modo da non contaminare la biosfera.
Ci sono soluzioni alternative oggi per la gestione delle scorie radioattive?
Ci sono tre cose chi si possono fare: il primo è il riciclaggio, pratica già in uso, ad esempio in Francia, Russia e Giappone. Quando il combustibile viene scaricato dal reattore, contiene tutto, i frammenti di fissione, il plutonio e in nuclei più pesanti. Sciogliendo il combustibile è infatti possibile separare ed estrarre il plutonio e l’uranio per creare un nuovo combustibile. Altrimenti il combustibile viene messo dentro cilindri di cemento che contengono una serie di strati protettivi e super resistenti, e vengono lasciati lì in attesa di portarli in un deposito geologico. Progetti per depositi geologici sono già molto avanti in Finlandia, Svezia e Francia.
Un altra cosa che si può fare, per limitare la produzione di scorie radioattive è non rallentare i neutroni. Non rallentando i neutroni il processo di fissione diventa più importante rispetto ai processi di formazione delle scorie. Inoltre, il combustibile viene utilizzato in maniera più efficiente e quindi le risorse di uranio potrebbero durare di più. Se riuscissimo a far funzionare un reattore senza rallentare i neutroni riusciremmo a produrre meno rifiuti. Un ulteriore vantaggio deriverebbe dal fatto che alcuni elementi pesanti oltre il plutonio, con neutroni lenti, non sono soggetti alla reazione di fissione, mentre lo sono per i neutroni veloci. Questo significa che in un reattore veloce (ossia un reattore in cui i neutroni vengono rallentati meno), vengono prodotti meno rifiuti e una parte dei rifiuti verrebbe incenerita.
Ad oggi sono stati costruiti due reattori veloci sperimentali, ma di fatto allacciati alla rete, in Russia di potenza di varie centinaia di megawatt. La Russia ha in programma di costruirne altri due, di potenza molto alta, intorno al gigawatt, uno con il sodio e uno con il piombo. La Russia ha molta esperienza in questo campo perché questo tipo di reattore veniva usato, in piccolo, per alimentare i sottomarini.
Qual è la differenza costruttiva? Il reattore veloce è molto simile ai reattori tradizionali, però non c’è l’acqua. Al suo posto, per portare via il calore dal nocciolo, si usano ad esempio metalli liquidi o gas, come l’elio. Ad esempio i due reattori russi funzionano con il sodio liquido. In Italia ci sono molti studi su questo prototipo e sul piombo liquido. Questi sono i più innovativi e avrebbero questa serie di vantaggi.
L’Europa non ha in programma di costruire reattori veloci nel breve periodo: ha fatto molta ricerca, ma da questo ad avere un progetto con una licenza serve tempo. Interessante è la costruzione di un prototipo in Romania in un consorzio italo-rumeno, che coinvolge l’ENEA e Ansaldo Nucleare, chiamato Alfred un piccolo dimostratore (100 megawatt).
Per accelerare lo sviluppo sarebbe necessario un piano da parte dell’Unione Europea. Mettere il nucleare nella tassonomia permette di agevolare investimenti, anche privati, e potrebbe cambiare qualcosa. Ma quello che aiuterebbe è uno sforzo maggiore sia in termini di formazione di nuove generazioni di fisici e ingegneri e avere obiettivi definiti. Il nucleare in Europa e non solo ha subito un calo di sostegno che ha avuto conseguenze.
L’ultima opzione è quella di fare un sistema misto. Nel reattore veloce si possono bruciare le scorie radioattive ma con dei limiti per ragioni tecniche. Potrebbe essere interessante lo sviluppo di un reattore che non si accende da solo, ma che ha bisogno di una aggiunta di neutroni da una sorgente esterna, in questo caso si possono caricare una quantità maggiore di rifiuti pesanti. Si tratta di quello che in inglese viene chiamato un Accelerator Driven System. Il premio Nobel Rubbia è stato il primo a proporre questo sistema. Questo sistema permetterebbe di caricare il reattore con quantità maggiori di elementi pesanti da distruggere. Un prototipo è in via di costruzione in Belgio, il progetto MYRRHA, ma la sperimentazione è prevista per il 2035. Quindi i tempi sono lunghi.
É possibile ridurre i tempi, ma ci sono ragioni tecniche che impediscono subito la sua entrata in funzione. Investendo sulla formazione e in presenza di finanziamenti più sostanziosi si potrebbe accelerare, ma alla base serve una volontà politica, e una collaborazione internazionale, specie in Europa.
Qual è invece la prospettiva delle centrali a fusione?
Il grosso dibattito riguarda la fissione perché c’è già, e volendo può ripartire. Ma allo stesso tempo c’è una notevole attività di ricerca sulle centrali a fusione. La fusione è il processo opposto: si tratta di due nuclei leggeri (ad esempio gli isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il trizio). Idrogeno e deuterio si trovano in natura (il deuterio si può estrarre dall’acqua del mare), mentre il trizio non esiste in natura e bisogna fabbricarlo. La reazione di fusione attualmente più promettente dovrebbe fondere deuterio e trizio. Per fonderli serve una macchina che raggiunge temperature altissime (dell’ordine dei cento milioni di gradi), e il plasma derivante, caldissimo, va isolato. Per farlo si sfruttano delle macchine a ciambella, i tokamak, in cui viene creato il vuoto, in cui viene iniettato il gas e scaldato, e intrappolato con campi magnetici.
Il progetto ITER, in costruzione in Francia che conta una collaborazione mondiale, è un grande esperimento che servirà a dimostrare che si riesce a sostenere questa reazione per un po’ di tempo. Mentre, infatti, la reazione di fissione si sostiene molto facilmente, anche fin troppo, controllandola con moderatori e assorbitori, nel caso della fusione è il contrario: la reazione avviene ma è molto difficile controllarla perché il plasma è instabile. Lo sforzo è quello di riuscire ad intrappolare il plasma e farlo durare il più possibile. ITER ad esempio, spera di raggiungere tempi di confinamento dell’ordine di 1 ora. Inoltre ITER ha l’obiettivo di dimostrare di produrre più energia di quanta necessaria per scaldare il plasma. Si tratta di un passaggio fondamentale. In macchine future si spera addirittura ad arrivare ad una ignizione: se riuscissero a fare delle reazioni di fusione con grande intensità, si potrebbe arrivare ad un regime in cui il plasma si scalda da solo. In quel caso, si avrebbe un guadagno netto di energia senza dover immetterne dall’esterno. Un altro obiettivo del progetto ITER è quello di provare a produrre il trizio direttamente nell’impianto di fusione: uno dei modi è quello di sfruttare i neutroni derivanti dalla fusione, che impattando sul litio possono produrre trizio ed elio. Se questo dovesse funzionare, il reattore a fusione potrebbe produrre da solo il combustibile di cui ha bisogno. Diventerebbe quindi autosufficiente.
Ma la previsione per la costruzione di impianti a fusione è ancora più lunga, si parla del 2050 per dimostrare la possibilità di produrre elettricità dalla fusione. Per arrivare alla fase commerciale parliamo della seconda metà del secolo, a meno che non ci sia qualche sorpresa da qualche società o progetto di ricerca alternativo.
Come potrebbe aiutare il nucleare nella lotta alla crisi climatica? E quanto potrebbe pesare il nucleare nel mix energetico?
Nell’immediato, come energia nucleare, quello che si può mettere in campo per fronteggiare il cambiamento climatico è la fissione. E ciò significa sfruttare e prolungare la vita dei reattori già esistenti.
L’energia nucleare da fissione, da quando è in uso, ha evitato l’immissione in atmosfera di 60 miliardi di tonnellate di CO2, ossia due volte la produzione attuale annuale di di CO2. In pratica ha evitato due anni di produzione di anidride carbonica.
In tutte le proiezioni, l’IEA e il Comitato sul cambiamento climatico, nella maggioranza dei modelli analizzati prevede un aumento dell’energia da fissione per raggiungere il famoso “net zero”. Non tutti i modelli, ma alcuni prevedono un aumento anche del 50 o 100%. Mediamente, quindi, si vede che per raggiungere gli obiettivi sulle emissioni di CO2 bisognerebbe aumentare la presenza di energia da fissione, cosa non ovvia. Mentre Cina e Russia hanno mantenuto e incrementato la loro flotta, in Europa alcuni paesi hanno deciso di abbandonare il nucleare.
L’uso dell’energia elettrica aumenterà nei prossimi anni. Il nucleare oggi in Europa contribuisce per il 25-26%. Ciò significa che se solo mantenessimo in vita le centrali presenti, vista la crescita della domanda, la quota potrebbe scendere anche al 20-15% nei prossimi anni. Se l’Europa dovesse rilanciare un programma di costruzione potrebbe aumentare. Le rinnovabili sono aumentate, ma allo stesso tempo c’è stato un ricorso delle fonti fossili. E per fronte a una chiusura delle centrali nucleari, non è immediato rimpiazzare l’energia con le rinnovabili. Lo dimostra anche quello che è successo nell’ultimo periodo: c’è stato meno vento a nord, e quindi un calo di produzione eolica, ma una maggiore domanda di elettricità dovuta al freddo. Per far fronte a questa situazione è aumentato il consumo di gas ed è stato addirittura necessario riaccendere gli impianti a carbone.
Il nucleare potrebbe aiutare l’Europa e l’Italia a raggiungere l’indipendenza energetica?
L’Italia a suo tempo ha deciso di basare la produzione di energia elettrica e la maggior parte dei sistemi di riscaldamento e cottura sul gas. Questo ci espone a problematiche geopolitiche non indifferenti. E nell’immediato nemmeno l’aumento delle rinnovabili potrà supplire a questo problema: per consumare meno gas, servirebbe un aumento degli impianti rinnovabili massiccio, impensabile nel breve periodo. Anche le centrali nucleari hanno il problema della tempistica, ma è per questo che serve una strategia europea. Se possiamo continuare ad importare energia dalla Francia, che mantiene la sua flotta in esercizio, almeno a livello europeo ci può dare un margine di intervento.