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Il Pianeta sta diventando davvero più verde? Il “global greening” e il caso studio del Sahel

Il cambiamento climatico potrebbe favorire un aumento della piovosità sull’Africa sub-sahariana

Il nostro pianeta sta diventando più verde? Sembrerebbe di sì. Il fenomeno, soprannominato “global greening”, ha attirato da tempo l’attenzione dei ricercatori, in particolare dopo gli anni ottanta, cioè da quando essi hanno a disposizione i dati satellitari in grado di fornire immagini complete della superficie terrestre. Le osservazioni satellitari confermano infatti un aumento globale del tasso di crescita della vegetazione correlato alla crescita delle concentrazioni di biossido di carbonio. Una ricerca pubblicata nel 2016 ha mostrato che l’inverdimento può essere spiegato per il 70% dall’effetto di fertilizzazione da parte del CO2, seguito a distanza (9%) dall’aumento dell’azoto. Le conseguenze di questo fenomeno, tra l’altro, possono ripercuotersi sull’intero ciclo dell’acqua tramite l’evapotraspirazione ed il cambiamento dell’albedo (riflettanza) della superficie. Un recente studio pubblicato nel 2020 su “Nature” ha sostanzialmente confermato questi risultati (riscontrando “un significativo global greening delle aree con vegetazione a partire dagli anni ottanta che prosegue anche dopo il 2010”) ed il ruolo primario svolto dal biossido di carbonio. A questo vanno aggiunti gli effetti dell’afforestazione e dell’agricoltura, soprattutto in Cina e in India, ed il riscaldamento della regione artica.

Il riscaldamento globale produce invece conseguenze in generale negative sulla vegetazione delle aree tropicali, verosimilmente a causa dello stress indotto dalle temperature troppo alte. Il tema del global greening di tanto in tanto emerge impropriamente anche come argomento nelle sedi negazioniste, negli ambienti, cioè, dove si nega la scienza dei cambiamenti climatici, di solito legati agli interessi dei produttori di energia fossile: come abbiamo visto infatti il biossido di carbonio, posto che vi siano le condizioni adatte (acqua a nutrienti), agendo come fertilizzante può favorire la crescita di molte piante, accelerando la rimozione del biossido stesso dall’atmosfera.

Si tratta di un feedback reale, ma che, come ben sappiamo, non è stato minimamente in grado di contrastarne l’inesorabile aumento di concentrazione dovuto all’uso dei combustibili fossili.

Figura 1: andamento dell’area fogliare nel periodo 1982-2015. Immagine da: https://www.nasa.gov/feature/goddard/2016/carbon-dioxide-fertilization-greening-earth

Nelle aree tropicali, come accennato, il “global greening” è contrastato dall’aggravamento dei cambiamenti climatici, dalla crescita delle temperature e dei tassi di evapotraspirazione. La regione del Sahel fornisce un caso di studio particolarmente istruttivo e mostra quanto sia difficile il lavoro degli scienziati e la loro ricerca delle cause e delle tendenze in atto nel sistema climatico. Il Sahel è una regione semi arida dell’Africa posta a sud del Sahara che si estende dall’Oceano Atlantico al mar Rosso. E’ una delle aree più povere, vulnerabili e politicamente instabili del pianeta; negli anni settanta e ottanta del secolo scorso fu straziata da lunghi episodi di siccità seguite da carestie che causarono la morte di oltre centomila persone. Dalla metà degli anni ottanta in poi si è assistito ad un parziale recupero delle precipitazioni che ha comportato un inverdimento della vegetazione visibile anche dallo spazio. Rispetto agli umidi anni 50 e 60 (Giannini e Kaplan, 2019) oggi però le precipitazioni sono più irregolari, meno frequenti ma più intense e pertanto associate spesso ad eventi alluvionali.

Quali le cause di questa tendenza? E’ possibile che le piogge ritrovate siano da ricondurre al cambiamento climatico e siano quindi una tendenza che si confermerà nei prossimi anni?

Come abbiamo ricordato, se è vero che fra le cause del “greening” della vegetazione globale possiamo elencare la fertilizzazione da parte del CO2, lo è altrettanto che nelle fasce tropicali, specie se a ridosso di un deserto come il Sahara, a fare la differenza è la quantità di pioggia che vi cade e la sua distribuzione durante l’anno.  Gli studi paleoclimatologici hanno mostrato che questa regione del mondo è soggetta da sempre a variazioni climatiche piuttosto brusche (perfino il deserto del Sahara conobbe un “periodo verde” nell’intervallo tra 11000 e 5000 anni fa), suggerendo una possibile risposta non lineare alle forzanti esterne.

Alcuni ricercatori, specialmente in passato, hanno ipotizzato un ruolo dell’uomo e delle attività agro-pastorali, esercitato tramite la deforestazione, che porta con sé cambiamenti dell’albedo, del ciclo dell’acqua e della quantità di polveri in sospensione. Proprio queste ultime, le polveri sahariane, sono state oggetto di varie ricerche, come questo studio del 2017 apparso su “Science Advances” dove si evidenzia che per spiegare la forza e l’intensità del monsone africano durante il periodo verde del Sahara è necessario includere i forti feedbacks che si instaurano tra la vegetazione e le polveri […] questi ultimi sono tanto importanti quanto le temperature del mare e i cambiamenti di vegetazione nel determinare le tendenze storiche”. Le polveri sahariane hanno un comportamento simile a quello degli aerosols antropogenici: tendono a riscaldare la troposfera e a rinfrescare la superficie, favorendo condizioni di maggiore stabilità atmosferica; esse inoltre interferiscono nei processi microfisici di formazione delle nubi e delle precipitazioni.

Ma naturalmente la polvere non è che solo uno fra i diversi attori che interagiscono nel complesso meccanismo che modula le precipitazioni del Sahel ed il monsone africano: in un articolo pubblicato nel 2007 sul “Journal of Climate” gli autori mostravano che la forzante radiativa esercitata dall’aumento della polvere nord africana può spiegare fino al 30% la riduzione delle precipitazioni osservate fra i periodi umidi e quelli secchi […] i cambiamenti delle temperature superficiali dell’Oceano Atlantico possono rendere conto fino al 50% della riduzione delle precipitazioni del Sahel”.

Figura 2: variazione delle piogge estive (in mm/giorno) a fine secolo relativamente alla media del Novecento prevista da un singolo modello nello scenario RCP8.5. I toni di grigio indicano l’aumento delle temperature del mare, le frecce rappresentano flussi di vapore. Fonte: https://doi.org/10.5194/esd-8-495-2017

L’andamento della temperatura superficiale dei mari e della terraferma è influenzato dai gas serra e dagli aerosols, che al giorno d’oggi sono principalmente di origine antropica e vulcanica (a proposito del legame che unisce riscaldamento globale, aerosols e monsoni si veda questo approfondimento. In una ricerca pubblicata nel 2017 su Earth System Dynamics gli autori hanno analizzato la risposta alle forzanti antropiche di alcuni modelli facenti parte del progetto CMIP5 (Coupled Model Intercomparison Project, fase 5). Essi hanno osservato che alcuni fra i modelli (7 su 30) simulano uno spostamento verso nord e un deciso incremento (dal 40 fino al 300%) delle precipitazioni sulla regione del Sahel, un aumento legato in modo non lineare, cioè non proporzionale, al rialzo delle temperature dell’Oceano Atlantico tropicale e del Mar Mediterraneo. In altre parole sembra che in alcuni modelli, una volta superate determinate soglie della temperatura del mare, la maggiore quantità di vapore disponibile (insieme al relativo calore latente di condensazione) inneschino un meccanismo auto rinforzante nella circolazione monsonica. Incidentalmente gli autori osservano che questi sette modelli tendono anche a rappresentare meglio la fase siccitosa degli anni settanta e ottanta, un motivo per considerare realistica la proiezione di un futuro climatico piovoso in uno scenario che sarà dominato dall’aumento dei gas serra. Una conclusione non troppo dissimile può essere letta anche in uno studio più recente pubblicato nel 2019 su “Climatic Change”. In questo ricerca, anch’essa basata sui modelli del progetto CMIP5, viene chiarito con maggiore rigore il ruolo avuto nel secolo scorso dagli aerosols e dai gas serra. Secondo gli autori infatti i periodi siccitosi sono stati conseguenza della particolare combinazione degli effetti di entrambi: da una parte gli aerosols (emessi soprattutto nel nord del mondo, quello industrializzato) hanno parzialmente raffreddato l’Oceano Atlantico settentrionale; dall’altra i gas serra iniziavano a riscaldare gli oceani tropicali. In questa situazione una sorgente di umidità (quella proveniente dal nord dell’Oceano Atlantico) è diminuita proprio mentre le temperature tropicali aumentavano, rendendo più improbabile raggiungere la soglia critica di attivazione dei fenomeni convettivi che sono all’origine delle piogge tropicali.

Figura 3: Il grande muro verde del Sahara. Immagine da: https://www.africanexponent.com/post/10937-the-great-green-wall-will-become-the-worlds-largest-living-structure

Cosa possiamo imparare da questa sintesi?

Dovrebbe essere chiaro innanzitutto che le scienze del clima non offrono certezze (come piacerebbe ai decisori politici) e che la conoscenza è il risultato di un lento processo di accumulazione di studi e di progressi faticosi. Il pianeta negli ultimi decenni è diventato complessivamente un po’ più verde in parte perché sono aumentate le concentrazioni di biossido di carbonio, ma è anche diventato molto più caldo. Oggi la migliore scienza ci suggerisce che nel Sahel il recupero delle piogge e della vegetazione (dopo le devastanti siccità del secolo scorso) potrebbe essere coerente con le proiezioni climatiche in un contesto forzato da forti emissioni di gas serra. Ma la stessa scienza ci avverte che le piogge sono divenute, e ancora più lo diventeranno in futuro, irregolari, meno frequenti, ma più intense e talora alluvionali. Inoltre non dimentichiamo che ai tropici il clima attuale è già estremo e che l’aumento delle temperature accompagnato da alti tassi di umidità rischia di rendere letteralmente invivibili alcune aree. Un progetto molto ambizioso, iniziato nel 2002, si propone di costruire una immensa muraglia di alberi (lunga 8000 km, larga 15) per fermare l’avanzata del Sahara e creare lavoro e benessere. Sarebbe davvero imperdonabile se in futuro il Sahel diventasse una regione ricca di alberi, ma inabitabile per l’uomo perché troppo calda.

 

Lorenzo Danieli

Sono nato a Como nel 1971 e ancora oggi risiedo nei pressi del capoluogo lariano. Dopo la maturità scientifica ho studiato fisica all’Università degli Studi di Milano, dove mi sono laureato con una tesi di fisica dell’atmosfera. La passione per la meteorologia è nata quando ero un ragazzino e si è trasformata successivamente nella mia professione. Con il tempo sono andati crescendo in me l’interesse per la natura e per tutte le tematiche legate all’ambiente, fra le quali le cause e le conseguenze del cambiamento climatico.

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