Coronavirus, l’inquinamento ha favorito il contagio? La discussione scientifica è ancora aperta
Potrebbe esistere un legame tra smog e diffusione del coronavirus, ma è ancora presto per trarre conclusioni
La connessione tra inquinamento atmosferico e Coronavirus COVID-19 è attualmente oggetto di studi e ricerche da parte della comunità scientifica. La notizia sulla presunta correlazione tra inquinamento e diffusione del contagio, che sta dominando le pagine dei quotidiani nazionali, si basa su un position paper realizzato da un gruppo di ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e dalle Università di Bologna e di Bari. Il position paper, per definizione, è un articolo che apre alla discussione scientifica in merito ad un determinato tema, richiede attività sperimentale o revisione da parte di altri gruppi di ricerca. La scienza, su questo delicato tema, sta ancora lavorando per cercare di comprendere le dinamiche di diffusione dei virus in relazione all’inquinamento. E sul Coronavirus in particolare ha ancora molta strada da fare.
La relazione in esame, dal titolo “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione” sembra aver trovato l’esistenza di un legame tra l’inquinamento dell’aria (PM10 e PM2,5) e la diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana. Lo studio in questione ha evidenziato come esista ora una “solida letteratura scientifica che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico, PM10 e PM2,5“. E’ opportuno sottolineare che questa è una pubblicazione preliminare, per cui le cosiddette conclusioni non si possono esprimere se non con il condizionale e in considerazione dell’esistenza di altri studi sul tema.
Ad esempio, esiste anche uno studio preliminare, pubblicato su BioRxiv in cui è stata analizzata la presenza di virus in sospensione in diversi ambienti della provincia di Wuhan: dai luoghi pubblici, alle sale pazienti o dello staff medico degli ospedali di Renmin e Fangcang. Lo studio è stato portato avanti da un gruppo di ricercatori del laboratorio di Virologia dell’Università di Wuhan, dall’Università di Scienze e tecnologie di Hong Kong, dall’Università Cinese di Hong Kong e dall’Università di Fudan a Shanghai. L’analisi in questione ha dato come risultato che, nei luoghi pubblici, la concentrazione dei virus nell’aria non era rilevabile, e che probabilmente sarebbe aumentata solo con l’aggregazione di persone, in una folla. In ambienti chiusi, invece, la concentrazione andava diminuendo con la riduzione del numero di pazienti e l’implementazione di una sanificazione rigorosa.
Da questi due soli esempi capiamo come la ricerca su questo virus nuovo sia ancora aperta e necessiti tempo e ulteriori studi per arrivare a delle conclusioni. Ci dilunghiamo su questa premessa perché riteniamo che la diffusione di informazioni non ancora comprovate ed espresse con termini non appropriati, sia pericolosa; in particolar modo, in questa situazione di grave emergenza sanitaria in cui riversa la popolazione, una comunicazione scorretta potrebbe portare all’innesco di comportamenti controproducenti da parte dei cittadini. Credere che l’inquinamento sia “l’autostrada per i contagi” potrebbe suggerire di non aprire più le finestre per il timore che il virus entri in casa e questo atteggiamento può rivelarsi controproducente laddove il ricambio d’aria dei locali sarebbe invece necessario, nonché suggerito dalle istituzioni.
Con questo articolo, non vogliamo dare indicazioni comportamentali, perché anche quelle spettano agli organi competenti, ma vogliamo richiamare alla grande responsabilità che in questo momento sta in capo al mondo della comunicazione. Informazioni corrette e misurate sulla base di evidenze scientifiche, mai come oggi, possono salvare delle vite.
Fatta questa doverosa e per noi essenziale premessa, illustriamo il contenuto del position paper secondo cui l’inquinamento potrebbe aver favorito il boom dei contagi da Coronavirus.
Il particolato atmosferico funziona da carrier, “ovvero da vettore di trasporto, per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus”. “I virus – si legge nel paper – si “attaccano” (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che possono diffondere ed essere trasportate anche per lunghe distanze”.
Il virus potrebbe sopravvivere per diverse ore o giorni nell’aria
Oltre al fattore distanza il virus potrebbe approfittare anche delle condizioni ambientali per sopravvivere più a lungo. “Il particolato atmosferico, oltre ad essere un carrier, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni“.
Le condizioni meteo e ambientali possono influire
Le condizioni meteorologiche potrebbero influire. Come? L’aumento delle temperature e l’aumento della radiazione solare potrebbero accelerare l’inattivazione del virus, un aumento dell’umidità relativa, d’altro lato, potrebbe “favorire un più elevato tasso diffusione del virus cioè di virulenza”. “Il tasso di inattivazione dei virus nel particolato atmosferico” dipenderebbe, quindi, “dalle condizioni ambientali”.
I parallelismi con l’aviaria o il morbillo
Gli studi hanno analizzato le ricerche scientifica fatte sui precedenti contagi virali, come l’aviaria, il virus respiratorio sinciziale umano (RSV) e il morbillo. Le ricerche scientifiche, anche in questi casi, “hanno evidenziato alcune caratteristiche della diffusione dei virus in relazione alle concentrazioni di particolato atmosferico”. Ad esempio l’influenza aviaria può essere veicolata per lunghe distanze attraverso tempeste asiatiche di polveri che trasportano il virus. I ricercatori hanno dimostrato che vi è una correlazione di tipo esponenziale tra le quantità di casi di infezione (Overall Cumulative Relative Risk RR) e le concentrazioni di PM10 e PM2.5″.
“Sulla base di questa sintetica introduzione e rassegna scientifica, storicamente ricostruita, si può quindi dedurre che il particolato atmosferico (PM10, PM2.5) costituisce un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali“.
Inquinamento e Coronavirus in Italia
Nel caso specifico del contagio da Coronavirus in Italia, il rapporto scientifico ha analizzato i livelli di smog di febbraio. In particolare sono stati presi in esame i dati di concentrazione giornaliera di PM10 rilevati dalle ARPA tra il 10 e il 29 febbraio e i dati sul numero di casi infetti da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile (COVID-19 ITALIA).
“Considerando il tempo di latenza con cui viene diagnosticata l’infezione da COVID-19 mediamente di 14 giorni, allora significa che la fase virulenta del virus, che stiamo monitorando dal 24 febbraio (dati della Protezione Civile COVID-19) al 15 Marzo, si può posizionare intorno al periodo tra il 6 febbraio e il 25 febbraio“.
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Lo smog, le alte concentrazioni di PM10, possono quindi aver favorito il contagio in Val Padana. “In relazione al periodo 10-29 Febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possono aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo. A questo proposito è emblematico il caso di Roma in cui la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un fenomeno così virulento”.
E’ bene sottolineare che questo e altri studi condotti a livello internazionale non sono definitivi ma, anzi, aprono la strada ad una discussione scientifica volta a comprendere le modalità di diffusione del virus e alle possibili relazioni con i fattori ambientali.