Per rispondere ai dazi USA, il Governo guarda anche ai Fondi per la transizione
Il Governo pensa di usare risorse destinate alla transizione verde per sostenere le imprese colpite dai dazi USA. Ma quei fondi, dicono esperti e associazioni, non possono diventare un tappabuchi per altre emergenze.

Con l’annuncio di 25 miliardi di euro in aiuti alle imprese italiane colpite dai dazi statunitensi, il Governo Meloni ha tentato di presentare un’azione rapida e “senza costi” per la finanza pubblica. Ma dietro lo slogan resta una domanda cruciale: qual è davvero il prezzo, per la transizione ecologica e per le fasce più vulnerabili della popolazione?
Da dove arrivano i fondi per far fronte ai dazi?
La Presidente del Consiglio ha spiegato che i 25 miliardi da stanziare per tutelare le imprese dai dazi USA deriverebbero da fondi europei già disponibili e permetterebbero di evitare impatti sulla finanza pubblica. In particolare, più di metà della somma verrebbe stanziata dal PNRR con l’obiettivo di «sostenere l’occupazione e aumentare l’efficienza della produttività». Il resto, ha spiegato la stessa Meloni, potrebbe derivare da una revisione della politica di coesione e dal Fondo Sociale per il Clima.
E proprio quest’ultima è forse la voce che suscita maggiore preoccupazione.
«Il Fondo Sociale per il Clima, uno degli elementi fondanti del Green Deal che il Governo ha annunciato di voler rivedere in maniera sostanziale, ha una funzione precisa nella protezione e redistribuzione temporanea dei maggiori costi che derivano dall’affrancarsi dalle fonti fossili per le famiglie e le microimprese più vulnerabili», ha sottolineato Chiara Di Mambro, Direttrice Strategia Italia e Europa del think tank ECCO. «Una questione che necessariamente deve accompagnarsi a politiche decise verso l’autonomia completa dell’approvvigionamento energetico che, come anche sottolineato da Draghi nell’audizione in Senato del 18 marzo, non potrà venire dal gas». Il fondo, insomma, non può essere trasformato in una cassa di pronto intervento per crisi industriali.
Anche Greenpeace, WWF, Legambiente, CGIL, e altri attori della società civile hanno firmato un documento congiunto in cui accusano il Governo di voler “dirottare” fondi che, per regolamento europeo, non possono essere utilizzati a questo scopo. Il Fondo Sociale per il Clima, spiegano, sarà finanziato principalmente con i proventi dell’ETS2 (cioè dalle quote di emissione nei trasporti e negli edifici) e destinato esplicitamente a misure di giustizia climatica. Inoltre, ogni Stato membro dovrà presentare entro giugno un piano dettagliato sull’utilizzo del fondo, da negoziare con Bruxelles. L’Italia, insomma, non può spenderli a piacimento, né tanto meno oggi: il fondo, infatti, non è ancora operativo.
Le stesse realtà denunciano che il MEF aveva già tentato un uso improprio del Fondo inserendolo nel cosiddetto Decreto Bollette. Un errore che ora si ripete: segno – dicono – di un approccio ideologico più interessato a rallentare la transizione che a gestirla in modo equo e lungimirante. «Forse si dovrebbe guardare ad altre spese da eliminare – aggiungono le organizzazioni -, per esempio quelle destinate a infrastrutture inutili».
Matteo Leonardi, cofondatore di ECCO, ha osservato anche che l’uso di fondi come quelli del PNRR e del Green Deal per reagire ai dazi «non è giustificato se l’Europa prometterà di importare più gas americano nella trattativa sui dazi. Questi fondi sono destinati proprio all’emancipazione dell’Europa dalle dipendenze energetiche e specificatamente dal gas, il cui costo ha trainato l’inflazione e il debito pubblico degli ultimi anni».
Una crisi può essere un’opportunità, ma non a scapito dei più fragili
Meloni ha parlato di occasione per «rendere il sistema economico più produttivo». Ma senza un allontanamento concreto dalle fonti fossili, la competitività resta esposta agli stessi rischi che hanno generato questa crisi: instabilità dei mercati, volatilità dei prezzi e ricatti geopolitici.
Se da una parte è evidente il bisogno di proteggere dai dazi imprese e lavoratori, dall’altra vale lo stesso per la necessità di non compromettere gli strumenti pensati per una transizione giusta ed equa. I fondi per il clima non possono diventare tappabuchi di emergenze industriali, soprattutto se esistono alternative meno dannose e più coerenti sia con gli impegni europei che con l’interesse pubblico.
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