Il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) è stato approvato dal Parlamento. Le risorse fornite per il Recovery Plan sono pari a 191 miliardi e mezzo a cui vanno aggiunti ulteriori 30, 6 miliardi (piano complementare del governo). I progetti del piano complementare avranno gli stessi strumenti attuativi del Pnrr.
Nel complesso potremo disporre di circa 221 miliardi di euro. La dote più significativa del Recovery Plan, quasi 70 miliardi di euro, va dunque alla transizione ecologica per una cifra pari a 59,33 miliardi (contro i 57,5 miliardi delle precedenti bozze del Pnrr) a cui vanno aggiunti anche 9,3 miliardi provenienti dal fondo complementare finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato lo scorso 15 aprile. La quota dei progetti verdi è così pari al 30% del totale. Il premier Draghi ha affermato che il tema legato alla transizione ecologica è trasversale e riguarda molti progetti di investimento delle 6 missioni del piano.
La seconda missione del piano sarà strutturata in interventi per l’agricoltura sostenibile e l’economia circolare, programmi di investimento e ricerca per le fonti di energia rinnovabili, lo sviluppo della filiera dell’idrogeno e la mobilità sostenibile. Prevede inoltre azioni volte al risparmio dei consumi di energia tramite l’efficientamento del patrimonio immobiliare pubblico e privato e, infine, iniziative per il contrasto al dissesto idrogeologico, la riforestazione, l’utilizzo efficiente dell’acqua e il miglioramento della qualità delle acque interne e marine.
Sul fronte Superbonus, ossia l’agevolazione fiscale decisa dal secondo governo Conte per le ristrutturazioni che rendano gli edifici più efficienti dal punto di vista energetico, si è scelta una proroga fino al 30 giugno 2023 per le case popolari i cui lavori siano arrivati al 60 per cento entro la fine del 2022. Entro il 31 dicembre 2022 potrà essere richiesto per tutti i tipi di edifici che al 30 giugno 2022 saranno arrivati al 60 per cento dei lavori.
Recovery plan: vera transizione o solo ammodernamento di un modello di sviluppo insostenibile?
Sulla carta, dunque, si tratta di numeri importanti e di una possibilità impensabile solo pochi mesi fa per andare in una direzione più sostenibile, ma sarà una vera svolta?
“Il concetto stesso di transizione ecologica- ci dice Serena Giacomin– prevede il “transito” da un sistema di sviluppo (non crescita ma sviluppo, ovvero non quantità ma qualità) ad un altro sistema di sviluppo, che sia sostenibile e quindi ripetibile nel futuro idealmente infinite volte, perché capace di preservarne le caratteristiche, tra cui ricchezza, prosperità e opportunità.
In questo momento il PNRR appare di certo ricco di potenziale e di miglioramenti, ma sembra seguire le stesse logiche che hanno portato le nostre società alla crisi ambientale, sanitaria, sociale, economica di cui siamo tutti vittime. Quel che invece era richiesto era un vero cambiamento di visione, una transizione verso un modello sostenibile, e così verso un futuro più sicuro e giusto. Al momento di questo cambiamento non c’è traccia, più che di una transizione occorrerebbe parlare di un ammodernamento.”
Il timore, dunque, è che siamo davanti a un “ammodernamento” di un modello di sviluppo insostenibile, che non affronta davvero le cause della crisi climatica che stiamo vivendo. Servirebbe dunque un totale ripensamento del modello che ha portato il nostro Pianeta a questa situazione così difficile.
La pioggia di miliardi a disposizione dovranno comunque essere gestiti da più attori nel modo più snello e limpido possibile e un nodo potenzialmente problematico potrebbe arrivare dalla burocrazia, una delle grandi cause di arretratezza e inerzia di questo Paese.
Il ministro per la Transizione ecologia Roberto Cingolani ha affermato oggi in un’intervista a Repubblica che bisognerà affiancare alla transizione ecologica anche la transizione burocratica.
“Già oggi in Italia programmiamo di installare 6 gigawatt l’anno e, a causa del lungo iter autorizzativo, alla fine ne installiamo solo 0,8. Di questo passo per arrivare ai 70 gigawatt necessari a ridurre del 55% le emissioni ci metteremo 100 anni, altro che 2030. Nessuno vuole trovare scorciatoie- afferma il ministro- però i tempi devono essere certi. Si può far danno al Paese non solo facendo male, ma anche perdendo tempo. Inoltre, se in Spagna si presentano centinaia di aziende nelle gare per le rinnovabili e da noi pochissime, scoraggiate dalla burocrazia, significa che loro possono scegliere i migliori, noi dobbiamo accontentarci di chi c’è”.