Franciacorta: come contrastare i cambiamenti climatici in modo ecologico e rispettoso verso l’ambiente
L'enologo Arturo Ziliani spiega perché la culla dello spumante rappresenta un modello nell'ambito delle coltivazioni biologiche
C’è una zona, in Italia, che tutto il mondo ci invidia per la produzione del suo spumante. È la Franciacorta. Sulle sue colline, la coltivazione della vite ha origini antiche, addirittura risalenti all’epoca preistorica. La produzione di vino intesa in senso “ufficiale” nasce intorno al 1200-1300. Nel corso dei secoli, questo tipo di coltura divenne il vero e proprio punto di forza della zona: tant’è che, tra periodi più floridi e momenti di crisi, la produzione vitivinicola qui non s’interruppe mai. Creando un vino ineguagliabile e permettendo in tal modo all’economia locale di fiorire. Purtroppo, però, questo territorio risulta anche uno tra quelli che maggiormente risente dei cambiamenti climatici in atto. Per capire la portata di questo fenomeno, e comprendere come si cerca di far fronte al problema, abbiamo incontrato Arturo Ziliani, noto enologo della zona nonché protagonista della storia di questi luoghi. Suo padre Franco, insieme a Guido Berlucchi, con la produzione nel 1961 delle prime bottiglie di vino con bollicine diede infatti origine a quella che oggi è universalmente conosciuta come la Franciacorta moderna.
Una storia davvero affascinante, quella della Franciacorta. Quali sono le caratteristiche del microclima che rendono unica questa zona?
«La Franciacorta si trova a sud del Lago d’Iseo, il quale a sua volta si trova a sud di alte montagne (come l’Adamello): c’è quindi una parte climatica che è condizionata dal flusso di aria fresca che dalle montagne scende sul lago e, in conseguenza, che scende anche verso questo territorio che è la Franciacorta. Il suolo così ricco, poi, circa 10-15 mila anni fa si è formato grazie a un ghiacciaio che ha sostato per alcuni secoli, lasciando sotto di sé uno strato ricco di minerali e detriti, che si è poi sgretolato col movimento dello stesso ghiacciaio. Sono quindi sia le caratteristiche del suolo che del clima ad aver fatto sì che questa zona sia particolarmente votata alle bollicine. L’uva qui non matura in modo eccessivo: non abbiamo quindi gradazioni importanti. Abbiamo però, in compenso, tutta la qualità e la freschezza necessarie per fare uno spumante di grande qualità e grande longevità. Il clima della Franciacorta è la somma dell’escursione termica (che si crea grazie a questi flussi d’aria diretti dalle montagne verso la Franciacorta) e di un suolo ricco di minerali portati dai ghiacciai. In particolare questa ventilazione, generalmente sempre presente (anche, dunque, durante il periodo vendemmiale) permette di avere acidità importanti, profumi eleganti, freschezza di prodotto e longevità del prodotto».
Questa zona risulta particolarmente sensibile ai cambiamenti climatici. Come hanno influito, questi, sulla produzione vitivinicola?
«I cambiamenti climatici sono sempre ben presenti nello spirito e nel lavoro del produttore di vino. Negli ultimi 15-20 anni è inequivocabile che essi abbiano influito in modo determinante. Lo si vede, ad esempio, nell’inizio delle vendemmie: trent’anni fa la vendemmia cominciava più o meno ai primi di settembre. Oggi non si parla più di vendemmia a settembre, ma di vendemmia in agosto. Oggi le vendemmie iniziano tra il 10 e 20 agosto. Poi ci sono eventi inaspettati: per esempio, il 2017 è stato un anno terribilis con la gelata capitata il 20 aprile che ha danneggiato vigneti, infatti la produzione è scesa ai minimi storici con un calo del 50% sulla produzione normale. Le gelate nel mese di aprile sono abbastanza comuni. Il problema è stato il caldo del mese precedente, quello di marzo, per cui la vegetazione è partita in anticipo e sono bastate 3 ore di temperature a -2, -3 gradi che hanno danneggiato e distrutto grappoli che si erano già formati anticipatamente. Non si può negare, quindi, che i cambiamenti climatici ci siano, e i loro effetti siano determinanti nella produzione del vino».
Da tempo voi state lavorando per contrastare gli effetti di questi cambiamenti climatici. In che modo?
«Quello che facciamo noi per contrastare questo cambiamento è avere da un lato molta più attenzione nelle lavorazioni agronomiche: negli interventi, cioè, che facciamo nei campi. Da alcuni anni siamo certificati biologici presso nostri clienti, e questo è un impegno non solo mentale ma anche economico notevole. Si deve infatti intervenire in modo tempestivo: se si deve fare un trattamento biologico perché ha piovuto il giorno prima, che sia sabato o domenica, bisogna farlo. Penso ad esempio a un trattamento con rame e zolfo, gli unici prodotti che si possono usare nei vigneti. Non facciamo più trattamenti chimici con farmaci che vanno all’interno della pianta, e con i quali si potevano fare interventi a distanza anche di dieci giorni. Oggi è più delicato l’intervento, perché tutto resta fuori dal frutto e dalla pianta. Però bisogna intervenire più spesso, e questo anche perché il clima ci obbliga a intervenire. Per esempio, questo mese di maggio è stato il più piovoso e freddo che abbia visto: di solito a maggio esplode la primavera, oggi non abbiamo ancora visto un fiorellino sulle viti. Per questo siamo preoccupati: c’è poco sole, poca luce, le viti non hanno ancora fatto la fioritura (di solito i primi fiorellini spuntano verso il 5-6 maggio). E poi, dopo la siccità invernale, adesso abbiamo troppa acqua. Ecco che dobbiamo intervenire spesso. Quando andiamo a raccogliere le uve, poi, per come facciamo a contrastare queste bizze del tempo che danno prodotti meno acidi quando fa molto caldo? Lavoriamo in modo molto preciso in spremitura: spremendo le uve un po’ meno otteniamo sì meno succo, perché ovviamente la resa di mosto cala, ma anche un mosto che ha maggiore acidità. Per contrastare cambiamento climatico stiamo sperimentando una varietà nuova di uva, l’Erbamat (il nome deriva dal fatto che colore di uva è sempre verde come erba, anche quando matura). Si tratta di un’uva antica coltivata nel bresciano e nel veronese: l’abbiamo ripresa 7-8 anni fa a livello consortile, ci sono molte aziende che ci credono. È una varietà che matura molto più tardi dello Chardonnay e dà un prodotto molto più acido, con acidità più elevata. Questo può essere un modo per contrastare le annate caratterizzate da bizze climatiche evidenti».
Insieme all’Università di Milano, con la collaborazione del Prof. Valenti, state poi portando avanti progetti molto interessanti. Per esempio?
«La prima cosa fatta con lui è il progetto “Mille e una vigna”, una sorta di carta di identità dei nostri vigneti e dei nostri fornitori. Abbiamo creato una specie di passaporto del singolo vigneto per andare a fondo e capire bene le caratteristiche del terreno e dell’uva che producono. Poi ci siamo addentrati in un progetto finalizzato a creare una macchina che distribuisce concimi organici per l’agricoltura biologica a rateo-variabile, ossia con l’aiuto del satellite (facciamo una foto all’infrarosso di tutti i vigneti, e dal colore emesso dalle foglie raccogliamo indizi sulla ricchezza e sulla povertà del terreno. Questi dati sono geo-referenziati: il trattore è munito di GPS e, in base alla povertà o ricchezza del terreno, distribuisce più o meno fertilizzante o concime). Stiamo facendo questo studio per mirare meglio la concimazione organica. Questo al fine di non gettare prodotto inutilmente, gravando così pesantemente sull’ambiente. Il progetto si chiama “Life Vitisom”. Col Prof. Valenti, infine, stiamo lavorando al progetto “Biopass”, un’analisi dei terreni che viene fatta anche intorno al vigneto per misurare la ricchezza di flora, fauna e microfauna presente in funzione del tipo di conduzione del vigneto: verifichiamo così se produzione biologica, in effetti, va a incrementare la biodiversità. Un altro modo per aiutare il paesaggio e l’ambiente che ci circonda».