Scorie nucleari, nessuno vuole il deposito: cosa succede ora?
La realizzazione di un unico grande deposito nazionale in cui stoccare i rifiuti nucleari sta generando molte tensioni e preoccupazioni: ma come vengono gestiti attualmente? E quali rischi ci sono? Facciamo il punto della situazione
Tra gli argomenti più discussi nelle ultime settimane c’è la costruzione di un deposito nazionale in cui custodire le scorie nucleari. I rifiuti radioattivi devono essere messi in sicurezza per almeno 3 secoli: questo è il tempo necessario a far calare la radioattività delle scorie nucleari fino a valori trascurabili. Attualmente, in Italia ci sono già circa 33 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, e si stima che nei prossimi anni ne verranno prodotti altri 45 mila, scarti di settori come la medicina, la ricerca e l’industria.
Attualmente le scorie nucleari sono immagazzinate in numerosi depositi temporanei che si trovano in diverse aree del Paese, e per trovare una sistemazione definitiva e sicura per questo tipo di rifiuti verrà costruito un deposito nazionale.
Il Governo italiano pianifica la realizzazione di un deposito nucleare ad alta sicurezza da decenni, ma solo all’inizio di quest’anno è stato tolto il segreto alla Cnapi (la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee), la mappa che indica le 67 aree che potrebbero ospitare il deposito, che era pronta già dal 2015. Tra le aree indicate dalla mappa, 12 sono segnalate come più idonee e si trovano in Piemonte e nel Lazio. Le altre, che in base a una serie di criteri hanno ricevuto una valutazione inferiore, sono in Toscana, Basilicata, Puglia, Sardegna e Sicilia.
Le regioni coinvolte sono sul piede di guerra: cosa succede adesso?
La pubblicazione della mappa da parte di Sogin – la società di stato che deve gestire i rifiuti radioattivi – ha acceso numerose polemiche, in particolare nei territori che figurano tra quelli potenzialmente idonei a ospitare il deposito delle scorie nucleari. Sul piede di guerra i governatori delle regioni coinvolte e numerosi sindaci. Il presidente della Sardegna ha assicurato di volersi opporre alla costruzione del deposito sull’Isola per «preservare la nostra terra da questo ennesimo oltraggio»; il presidente della Puglia ha detto che «non si possono imporre, ancora una volta, scelte che rimandano al passato più buio, quello dell’assenza della partecipazione, dell’umiliazione delle comunità, dell’oblio della storia e delle opportunità». Molte le proteste anche in Basilicata, in Sicilia, in Toscana e in Piemonte.
Al momento, non è stata presa alcuna decisione sulla località destinata a ospitare il deposito: regioni, province e comuni, ma anche associazioni di categoria e comitati, hanno due mesi per partecipare alla consultazione pubblica e presentare le proprie osservazioni alla CNAPI (ma, secondo quanto riferito dall’ANSA nella mattinata di mercoledì 13 gennaio, il ministro Costa sarebbe favorevole a un allungamento dei tempi dedicati al confronto).
Solo allora verrà stilata una nuova mappa, la CNAI (Carta Nazionale delle Aree Idonee). A quel punto si cercherà di capire se qualcuna delle zone idonee è effettivamente interessata a ospitare il deposito delle scorie nucleari: se nessun comune si farà avanti si cercherà di trovare una soluzione condivisa.
L’area sarà individuata ufficialmente con un decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, cui spetta l’ultima parola, e secondo il programma si punta a costruire il deposito entro il 2025.
Dove si trovano, oggi, le scorie nucleari?
Al momento i rifiuti radioattivi sono custoditi in depositi temporanei sparsi in buona parte del territorio nazionale. In particolare, si tratta di ex centrali nucleari – attive fino agli anni Ottanta -, centri di ricerca nucleare e centri di gestione dei rifiuti industriali. Negli ultimi anni, inoltre, parte delle scorie nucleari è stata portata in Francia e nel Regno Unito.
Come funzionerà il deposito nazionale?
Il deposito raccoglierà esclusivamente le scorie nucleari prodotte in Italia, come stabilito dall’International Atomic Energy Agency dell’ONU, secondo cui ogni Paese deve assumersi la responsabilità di smaltire i propri rifiuti radioattivi.
In particolare, il deposito nazionale permetterà lo stoccaggio dei rifiuti ad attività bassa e molto bassa, la cui radioattività raggiunge valori trascurabili in 300 anni. La stessa area del deposito comprenderà però anche il CSA, ovvero Complesso Stoccaggio Alta Attività, in cui verranno messi in sicurezza circa 17 mila metri cubi di rifiuti a media e alta attività. Sogin, società pubblica responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, assicura che questi ultimi saranno stoccati in contenitori altamente schermanti, capaci di resistere anche a sollecitazioni estreme. L’impresa sottolinea tuttavia che quello relativo ai rifiuti a media e alta attività sarà uno stoccaggio temporaneo, «in attesa della disponibilità di un deposito geologico»
I rifiuti ad attività bassa e molto bassa saranno invece smaltiti nel deposito nazionale. Il trasporto avverrà con contenitori metallici che si chiamano “manufatti” (la prima di quattro solide barriere). In seguito, spiega Sogin, i contenitori verranno inseriti e cementati in una seconda barriera di calcestruzzo speciale, progettata per resistere almeno 350 anni, che a sua volta viene inserita in una terza barriera, chiamata cella, realizzata in cemento armato. Una volta riempite, le celle verranno sigillate e rivestite con una collina artificiale (quarta barriera), in grado di prevenire l’infiltrazione dell’acqua e isolare i rifiuti dall’ambiente.
Il deposito sarà accompagnato da un Parco Tecnologico, che comprenderà un centro di ricerca applicata e di formazione, aperto a collaborazioni internazionali, dove svolgere studi nel campo dello smantellamento delle installazioni nucleari, della gestione dei rifiuti radioattivi, della radioprotezione e della salvaguardia ambientale.
Nel complesso, l’area sarà vasta circa 150 ettari:
Costi e benefici della realizzazione del progetto
Secondo le stime, la realizzazione del deposito nazionale e del parco tecnologico richiederà un investimento complessivo di circa 900 milioni di euro. Il deposito dovrebbe essere costruito nell’arco di 4 anni, per entrare in esercizio entro il 2029.
I costi della realizzazione saranno finanziati dalle nostre bollette, con la componente tariffaria A2RIM, la stessa che in futuro sosterrà i costi di esercizio del deposito nazionale. Attualmente la stessa componente viene già utilizzata per coprire i costi dello smantellamento degli impianti nucleari.
In un rapporto, la CGIL ha calcolato che dal 2001 le bollette hanno fornito 3,7 miliardi di euro, ma di questi solo 700 milioni sono stati effettivamente spesi per smantellare i vecchi impianti. La maggior parte dei costi deriva infatti dalla manutenzione dei depositi temporanei attualmente in uso (1,8 miliardi di euro) e dal trattamento del combustibile radioattivo in Francia e UK (1,2 miliardi di euro). La stessa CGIL ha sottolineato l’importanza di «dare soluzione a un vero problema nazionale e di far fronte a una situazione di urgenza prima che si verifichino situazioni di emergenza».
Secondo i dati resi noti da Sogin, durante i 4 anni di cantiere la costruzione del deposito nazionale e del parco tecnologico genererà oltre 4 mila posti di lavoro l’anno, mentre durante la fase di esercizio si stima l’occupazione diretta di circa 700 addetti, con un indotto che può incrementarla fino a circa mille unità.
Il Parco Tecnologico potrà rappresentare un valore aggiunto per le comunità locali, grazie al coinvolgimento di istituzioni, università, associazioni e imprese.
Secondo un decreto emanato nel 2010 sono previsti inoltre contributi economici per il territorio che ospiterà la struttura.
Possiamo stare tranquilli per quanto riguarda la sicurezza e l’ambiente?
Il sistema multi-barriera è stato progettato per garantire l’isolamento dei rifiuti dall’ambiente. Nel corso dei 3 secoli necessari a far decadere la radioattività delle scorie, comunque, la struttura e i dintorni del sito saranno sempre monitorati. Il deposito sarà inoltre progettato per resistere a una vasta gamma di incidenti, come ad esempio terremoti, condizioni climatiche estreme, incendi o esplosioni.
Un sistema di controllo e monitoraggio verificherà anche la qualità dell’acqua, dell’aria e della catena alimentare, da prima della fase di costruzione e anche dopo la chiusura. Secondo quanto riferisce Sogin, «la sostenibilità ambientale del progetto è garantita dall’applicazione dei criteri di localizzazione stabiliti dall’ente di controllo ISPRA (oggi ISIN) nella Guida Tecnica n. 29, pubblicata il 4 giugno 2014, dalla progettazione della struttura in base ai principi di sicurezza consolidati a livello internazionale e da un sistema autorizzativo e di controllo rigoroso».
Le associazioni ambientaliste invitano alla cautela e alla trasparenza.
In un comunicato, il WWF ha sottolineato che in questa vicenda il rischio radiologico più elevato è rappresentato dallo smantellamento degli impianti esistenti e ha invitato le amministrazioni a un maggiore coinvolgimento dei cittadini, a cui è necessario illustrare con trasparenza i rischi, compresi «quelli del non fare nulla». «Nessuno sarà mai felice di convivere con il sito o con più siti nazionale/i – si legge -, ma un’adeguata informazione e garanzie di controllo sono comunuqe il minimo che ci si deve aspettare in un paese civile».
Il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, ha sottolineato l’urgenza di intervenire sulla questione: «Lo smaltimento in sicurezza dei nostri rifiuti radioattivi è fondamentale – ha detto – per mettere la parola fine alla stagione del nucleare italiano e per gestire i rifiuti di origine medica, industriale e della ricerca che produciamo ancora oggi. La partita è aperta da tempo, non è semplice ma è urgente trovare una soluzione visto che questi rifiuti sono da decenni in tanti depositi temporanei disseminati in tutta Italia». Ciafani ha spiegato che tra le questioni più urgenti c’è anche la gestione dei rifiuti nucleari a media e alta intensità che, «lascito delle nostre centrali ormai spente grazie al referendum che vincemmo nel 1987, devono essere collocate in un deposito europeo, deciso a livello dell’Unione, su cui è urgente trovare un accordo».
Una posizione più critica nei confronti di un unico deposito nazionale è quella adottata da Greenpeace, secondo cui – come afferma in un comunicato – «sarebbe stato più logico verificare più scenari e varianti di realizzazione del Programma utilizzando i siti esistenti o parte di essi, e applicare a queste opzioni una procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), in modo da evidenziare i pro e i contro delle diverse soluzioni». A suscitare lo scetticismo dell’organizzazione sarebbe anche la gestione combinata dei rifiuti a media e alta attività con quelli a bassa e molto bassa attività, con implicazioni importanti come «la possibile decisione di “nuclearizzare” un nuovo sito – scrive Greenpeace – vincolandolo a lungo termine alla presenza di rifiuti pericolosi».