La regione artica è uno dei luoghi del pianeta che si sta riscaldando di più e più velocemente. All’aumentare della temperatura, lo strato di suolo perennemente congelato, chiamato permafrost, inizia a scongelarsi, rilasciando metano e altri gas serra nell’atmosfera. Queste emissioni di metano possono a loro volta accelerare il futuro riscaldamento, ma per capire fino a che punto, occorre conoscere quanto metano effettivamente può essere emesso e quali fattori ambientali possono influenzarne il rilascio.
È un’impresa difficile. L’Artico si estende su migliaia di chilometri, molte delle quali inaccessibili all’uomo. Questa impenetrabilità ha limitato le osservazioni dirette e la ricerca. In più, le osservazioni satellitari non sono sufficientemente dettagliate per consentire agli scienziati di identificare gli schemi chiave e i fattori ambientali a piccola scala che possono influenzare le concentrazioni di metano.
Il metano, ricordiamolo, è un potentissimo gas serra. La sua azione nell’intrappolare il calore emesso dalla Terra sotto forma di radiazione infrarossa è trenta volta superiore a quella dell’anidride carbonica. Per fortuna la sua concentrazione in atmosfera è molto inferiore, è dell’ordine di 1,860 ppm (parti per milione) a fronte di una concentrazione di CO2 attualmente di 413 ppm. Tuttavia il contributo del metano al riscaldamento globale non è irrilevante, siamo intorno al 15% mentre quello della CO2 è di circa il 55%.
Gli scienziati della NASA hanno trovato un modo per colmare questa lacuna, mettendo in piedi un importante progetto di ricerca, l’Arctic Boreal Vulnerability Experiment (ABoVE). Nel 2017 sono stati utilizzati aerei equipaggiati con uno spettrometro altamente specializzato per sorvolare circa 30.000 chilometri quadrati del paesaggio artico nella speranza di rilevare gli hotspot (punti caldi) di metano.
Lo spettrometro non ha deluso.
Son stati considerati hotspot “aree che mostrano un eccesso di 3.000 parti per milione di metano tra il sensore sull’aereo e il suolo”, ha dichiarato l’autore principale della campagna di ricerca Clayton Elder del Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena in California. “Abbiamo rilevato 2 milioni di questi hotspot sulla superficie terrestre che abbiamo sorvolato”. L’articolo è stato pubblicato il 10 febbraio in Geophysical Research Letters.
Il team di scienziati hanno anche fatto una scoperta importante: i “punti caldi” di metano sono per lo più concentrati entro circa 40 metri da superfici di acqua, come laghi e corsi d’acqua. Oltre i 40 metri, la presenza di hotspot diminuisce gradualmente, e a circa 300 metri dalla fonte d’acqua, sono quasi del tutto inesistenti.
Gli scienziati che stanno lavorando a questo studio non hanno ancora una risposta esauriente sul perché i 40 metri sia un “numero magico” per l’intera regione di indagine, ma ulteriori approfondimenti condotti sul campo stanno fornendo ulteriori utili informazioni.
“Dopo due anni di studi sul campo iniziati nel 2018 in un sito lacustre dell’Alaska in cui era presente un hotspot di metano, abbiamo riscontrato un brusco scongelamento del permafrost proprio sotto l’hotspot“, ha detto ancora Elder. “Il carbonio aggiuntivo derivante dallo scioglimento del permafrost – carbonio che era congelato e intrappolato da migliaia di anni – viene trasformato in metano dai microbi che lo utilizzano come nutriente. E nel frattempo il permafrost continua a scongelarsi.”
Anche se lo studio è ancora all’inizio, queste prime osservazioni sono molto preziose. Essere in grado di identificare le probabili cause della distribuzione degli hotspot di metano aiuterà a calcolare in modo più accurato le emissioni di questo gas serra in molte altre aree in cui non si hanno osservazioni. Questi dati miglioreranno il modo con cui gli attuali modelli riproducono la dinamica del metano nelle regioni artiche e quindi la capacità dei modelli stessi di prevedere l’impatto della regione sul clima globale.