Omar Di Felice, il ciclista dei cambiamenti climatici che ha pedalato in solitaria in Antartide
La storia di un atleta che in sella alla sua bici con imprese estreme racconta il riscaldamento globale. L'intervista
Per alcuni è “il ciclista del freddo” per altri “l’atleta esploratore” per me che da anni mi occupo di meteorologia, clima e ambiente è “il ciclista dei cambiamenti climatici”. Il suo nome è Omar Di Felice e con la sua recente impresa in Antartide, secondo dati ufficiali, i suoi 716.5 km percorsi sono la seconda distanza più lunga mai percorsa continuativamente da un ciclista in queste zone proibitive. Partito il 20 novembre 2023 dalla costa di Hercules Inlet, avrebbe dovuto pedalare per oltre 1500 km per raggiungere il Polo Sud geografico e poi il Leverett Glacier, provando infine a rientrare sempre passando dal Polo Sud. L’impresa si è però interrotta a inizio gennaio, proprio a causa di condizioni meteo avverse e inusuali.
Nato a Roma il 21 luglio 1981 da mamma di origini algerine, Omar Di Felice si è innamorato del ciclismo guardando le gesta di Marco Pantani; amante dell’inverno e delle lunghe distanze, appassionato di salite e discese, con una breve parentesi professionistica, si dedica anima e corpo all’ultraciclismo, quella disciplina in cui ci si cimenta su distanze estreme, dove il sonno viene centellinato e i dislivelli sono massacranti. Nel corso degli anni si è messo alla prova con avventure ai limiti della resistenza: quelle in cui le temperature scendono sotto lo zero e si continua a pedalare ammirando lo spettacolo dell’aurora boreale, oppure i suggestivi paesaggi del deserto del Gobi o l’imponente vetta dell’Everest.
“Omar your time is over” questo il messaggio ricevuto nel cuore dell’Antartide a pochi km da Thiels mentre stava pedalando e spingendo la bici da oltre 12 ore: per motivi di sicurezza ha dovuto terminare la sua avventura alla conquista del Polo Sud dopo 48 giorni e 716,5 km a causa del “caldo anomalo” che ha reso la neve poco compatta e molto difficile da percorrere con la bici e il rimorchio-slitta. Durante la traversata le temperature sono oscillate tra i -25ºC e un massimo di -10ºC durante le giornate migliori, cui va aggiunta la presenza dei forti venti catabatici in grado di far crollare la temperatura percepita ben al di sotto questi valori.
“Molti pensano che la solitudine sia una condizione negativa. Ma non lo è quando raggiungi il tuo equilibrio interiore. È proprio la solitudine la condizione in cui riesco a dare il meglio di me. Tutte le mie più grandi avventure e vittorie nascono da momenti come questo. Da solo, nel cuore di madre natura”
Ho avuto la possibilità di intervistarlo. Di seguito domande e risposte
La tua recente impresa in Antartide ha voluto essere un mezzo per richiamare l’attenzione sulla crisi climatica che stiamo vivendo. In che modo i tuoi occhi hanno immortalato questa situazione?
Tengo sempre a far capire quanto sia difficile per una persona che si muove in bicicletta o semplicemente per una persona senza studi particolari in materia, rendersi conto in loco dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo. Io mi sono mosso in un ambiente pericoloso, caratterizzato da neve e ghiaccio, freddo, venti catabatici: sapevo che mi sarei trovato ad affrontare queste prove estreme. Ho avuto il sentore, la percezione della crisi che stiamo vivendo quando già in partenza sono stato costretto a modificare il percorso che avevo in mente; c’erano delle zone grigie con dei crepacci che si sono aperti nell’ultimo anno e da storico non comparivano dalle immagini che avevo raccolto. Questo è stato il primo segnale di come il territorio stia cambiando e poi ne ho avuto la conferma una volta rientrato, confrontando le medie stagionali di dicembre con quelle effettive registrate: erano state rilevate temperature più elevate rispetto al passato che si sono tradotte in forti precipitazioni che solitamente non caratterizzano l’Antartide. Le intense nevicate hanno rallentato la mia marcia: svariati centimetri di neve fresca, inaspettati, mi hanno messo a dura prova.
Hai pedalato in uno dei luoghi più estremi del nostro Pianeta, da solo per 48 giorni. Come ci si prepara a una sfida tanto estrema?
La preparazione è di due tipi: tradizionale e organizzativa. Per la prima mi sono concentrato allenandomi in bicicletta e senza bici in palestra per rinforzare tutte quante le parti del corpo perché differentemente dalle solite avventure ciclistiche passate, sapevo di non dovere solo pedalare ma anche trascinare una slitta e occuparmi di me in tutto e per tutto da solo. Mi sono preparato a 360 gradi ed è stata questa la parte nuova rispetto a un’avventura in bicicletta tradizionale. Per tutto quello che invece riguarda la la logistica, le persone non hanno la percezione di quanto sia complicato e complesso organizzare un’avventura in Antartide: per andarci servono dei permessi speciali, tutti i dettagli devono essere studiati a fondo non soltanto rispetto alla parte bici ma anche dal punto di vista di come si vive e di che cosa bisogna portare.
Serve l’attrezzatura per l’accampamento, per cucinare, per fondere la neve e ricavarne l’acqua, quindi diciamo che si tratta di una preparazione che investe tutti quelli che sono gli aspetti della vita durante una spedizione del genere. Bisogna curare ogni dettaglio legato all’alimentazione perché nella preparazione di questo tipo di sfide bisogna anche studiare attentamente in modo di essere in grado di portare con sé tutto il necessario e fare esattamente il conteggio corretto delle calorie per quelli che sono poi i 60 lunghi giorni in cui non hai possibilità di fare rifornimento. Si devono calcolare molto bene le calorie, il numero di cibi, di pasti, gli extra rispetto a quelli messi in preventivo. È un lavoro faticoso che mi ha impegnato continuativamente per svariati mesi ma su cui comunque avevo già messo occhi e testa da un paio d’anni.
Ti hanno definito “atleta-esploratore”. Cosa ti senti maggiormente di essere?
Sinceramente non riesco a darmi una autodefinizione. Nasco ovviamente come atleta ultracycling, una disciplina del ciclismo molto ampia all’interno della quale ci sono varie competizioni, quelle lunghe non stop a cui già partecipavo ma anche esplorazioni, avventure, lunghe gare, sfide in solitaria quindi sicuramente mi sento in primis un atleta e poi tutto il resto… viaggiatore, esploratore, avventuriero sono tutti pezzettini che si vanno a mettere di contorno rispetto a quella che è la mia figura di di atleta di ultracycling.
Immagino che sia prima di partire che durante l’impresa tu fossi a contatto con un team di meteorologi e climatologi. Come avvenivano le comunicazioni su quello che avresti dovuto affrontare?
Per quanto riguarda il mio progetto Bike to 1.5°C, ho una serie di esperti, scienziati con cui mi confronto sulle varie tematiche legate alle avventure ed ai cambiamenti climatici. Durante la sfida in Antartico non avevo un contatto diretto con un meteorologo o un climatologo che mi desse in tempo reale le previsioni. Ero collegato con la centrale operativa dell’agenzia americana che rilascia i permessi, l’Antartic Logistic Expedition, con cui solitamente ogni giorno facevamo il punto della situazione. Tendenzialmente loro cercavano di darmi quella che poteva essere una previsione di massima ma si trattava di previsioni sempre soggette alla repentinità con cui in Antartide il meteo può variare e ovviamente in alcune zone poi non c’è possibilità di fare dei rilevamenti precisi quindi il più delle volte ero io che davo a loro informazioni in tempo reale! Di ritorno dall’Antartide sono sempre rimasto in contatto con gli esperti che fanno parte del comitato scientifico del mio progetto e con loro farò una serie di attività divulgative, soprattutto a partire dai miei canali social, andando a raccontare anche sotto il punto di vista scientifico che cos’è l’Antartide.
La salvaguardia del Pianeta ti sta molto a cuore, cosa possiamo fare per invertire un trend che pare portarci su una strada senza ritorno?
La prima cosa da fare per affrontare un problema è prenderne coscienza, sembra una cosa scontata ma abbiamo iniziato tardi a parlarne e questo ha determinato una presa di coscienza tardiva. Di conseguenza io ancora leggo, sento e percepisco un certo scetticismo da una parte di alcune persone, mentre chi ne ha consapevolezza non sa poi effettivamente cosa fare nella vita reale. Io credo che l’unica cosa da fare, il punto di partenza sia ascoltare la scienza. Con il mio progetto io non ho l’ambizione o la presunzione di dover dire agli altri cosa dovrebbero fare, ma voglio coinvolgere la scienza e far sì che questa riesca a dialogare con le persone comuni, con un linguaggio che sia il più possibile comprensibile. Sicuramente partendo dai dati che la scienza ci offre e dalla lettura di chi fa questo mestiere e dedica alla ricerca la propria vita, si può cominciare a prendere consapevolezza del problema per poi affrontare le sfide che ci aspettano. In primis dobbiamo cambiare le nostre abitudini quotidiane: mi rendo conto che siamo cresciuti dando per scontato che le risorse del Pianeta siano infinite e ci stiamo rendendo conto che in realtà così non è, a partire banalmente dall’acqua fino ad arrivare a tutte quante le altre risorse che ci offre la Terra. Quindi sicuramente avere uno stile di vita che impatti di meno sul Pianeta è il primo passo che tutti noi dovremmo fare e poi anche fare pressione dal basso verso l’alto, per chiedere ai nostri decisori politici di prendere in mano la situazione e mettere in campo poi delle soluzioni che siano strutturate. Certe cose non le possiamo fare noi ma noi possiamo chiederle affinché poi a livello globale si riesca veramente a cambiare, su scala prima nazionale poi europea, continentale e poi mondiale. Si tratta di un processo lungo che richiede molti anni però insomma sappiamo tutti quanti che le temperature continuano ad aumentare anno dopo anno. Il clima sta cambiando e gli eventi meteo estremi sono sempre più frequenti anche qui da noi. Dobbiamo quindi darci una mossa.
Prossime sfide?
In questo momento sono abbastanza stanco e mi sto rilassando un po’. Diciamo che sto vivendo il rilassamento, il relax che viene dopo tanti anni di lavoro su un progetto così intenso che comunque mi ha portato via energie fisiche, mentali e tutto quello che sentivo di avere anche perché si trattava di un sogno che poi è diventato realtà inserito in un contesto molto ampio. Sicuramente nei prossimi mesi continuerò la parte di divulgazione soprattutto nelle scuole e inizierò già a partire da metà febbraio con i primi incontri che andranno avanti per tutto l’anno. Scriverò un libro relativo a questa avventura e poi inizierò con il calendario di gare di ultracycling, anche se in questo momento non ho ancora pianificato delle date perché sto aspettando il mio fisico mi dica di essere pronto per ricominciare ad allenarmi con una certa costanza.
Mi racconti qualcosa del progetto “Bike to 1.5°C”, lanciato in occasione della scorsa COP26?
Bike to 1.5°C è il progetto che ho lanciato 2 anni fa quando ho deciso di prendere la mia bicicletta e andare alla COP 26 di Glasgow, in collaborazione con l’associazione Italian Network che mi da supporto dal punto di vista scientifico. Perché ho scelto di lanciare questo progetto? Perché credo che ognuno di noi debba fare il meglio possibile relativamente alle proprie possibilità. Come atleta, persona esposta pubblicamente, credo di avere la responsabilità di assumermi determinate battaglie e questioni da portare avanti con i miei follower. Tra queste sicuramente c’è il farmi portavoce di quello che è il linguaggio della scienza e di quelle che sono le tematiche che questa deve assolutamente portare fuori dagli ambienti più tecnici ed esperti in modo da farli arrivare sulla tavola delle persone comuni che si trovano ad affrontare la crisi climatica. È un impegno che sinceramente mi sento di di portare avanti, oltretutto sono un ciclista quindi tu lo sai bene visto che pedali anche tu che noi vediamo il mondo da una posizione privilegiata che ci dà la possibilità di coglierne maggiormente i dettagli; ma in questi dettagli ci sono tante criticità. Girando il mondo ho visto veramente il mondo cambiare. Penso ad esempio all’Artico, all’Islanda, nello specifico. Questa è una zona che conosco molto bene e che ho visto modificarsi enormemente negli ultimi 10 anni. Ad esempio adesso mi trovo a Bormio: mi basta affacciarmi alla finestra per capire in che situazione si trovano montagne e ghiacciai; ad occhio nudo si può cogliere la differenza di anno in anno e ogni 5 anni se si potesse scattare una fotografia, tutti da casa nostra ce ne renderemmo veramente conto. Il mio è un progetto che ha la forte missione di divulgare correttamente determinati temi e cercare di far arrivare questo problema, le sue soluzioni o le sue ipotetiche soluzioni a quante più persone possibile. La mia attività si declina in incontri nelle scuole, dirette, interviste che io faccio insieme a scienziati ed esperti sui miei canali social e tutta una serie di altre attività come eventi in presenza, meeting, conferenze e così via. Diciamo che mi ritengo un laboratorio di divulgazione aperto a tanti progetti, tante esperienze e soprattutto che va ad utilizzare quelle che sono le mie avventure in giro per il mondo per una giusta causa.