Territorio

Sono iniziati dei negoziati cruciali per il futuro dei fondali marini e delle specie che li abitano

Riunita in Giamaica, la comunità internazionale deve discutere un "codice minerario" atteso da tempo. Il tema più critico è il cosiddetto deep sea mining, l'estrazione mineraria negli abissi, che rischia di avere conseguenze molto serie

Si sta svolgendo in questi giorni il vertice dell’International Seabed Authority (ISA), l’Autorità internazionale per i fondali marini delle Nazioni Unite, che fino al 26 luglio si riunirà in Giamaica per discutere, tra le altre cose, il futuro del cosiddetto deep sea mining. Si tratta della pratica di estrarre minerali dai profondi fondali oceanici, estremamente controversa per le conseguenze sull’ambiente e gli ecosistemi.

Altissima quindi l’attenzione sul summit, che potrebbe segnare un punto di svolta per le politiche globali di estrazione mineraria negli abissi, con implicazioni profonde sia dal punto di vista economico che ambientale.
Il deep sea mining si propone infatti come una risposta alla crescente domanda di minerali come cobalto, nichel e terre rare, essenziali per la produzione di tecnologie avanzate ma anche per la transizione energetica.

A rendere così attrattive le pratiche di estrazione negli abissi sono in particolare i “noduli polimetallici“, concrezioni minerali che si trovano sul fondo marino. Con dimensioni che generalmente variano tra i 5 e i 15 centimetri di diametro, i noduli si formano attraverso un lunghissimo processo di precipitazione di metalli intorno a un innesco naturale, come un frammento di conchiglia o un detrito. La loro formazione stratificata avviene in condizioni ambientali molto specifiche e stabili, spesso a grandi profondità oceaniche e in aree con bassi tassi di sedimentazione, e impiega milioni di anni.

All’interno di questi noduli si trovano metalli di grande interesse industriale, fondamentali per numerosi settori, dall’elettronica all’energia, dalle telecomunicazioni all’industria militare. Tra questi il manganese, il nichel, il rame, il molibdeno, il litio e terre rare.

Le gravi minacce del deep sea mining per l’ambiente e gli ecosistemi

I rischi ambientali associati al deep sea mining sono oggetto di crescente preoccupazione. Gli scienziati avvertono che l’estrazione dei minerali potrebbe distruggere ecosistemi marini unici, che in molti casi non siamo nemmeno arrivati a comprendere completamente.
Tra gli effetti più rischiosi ci sono la sospensione di sedimenti, l’inquinamento chimico e l’emissione di molta luce e rumore che potrebbero minacciare la salute, e forse la stessa sopravvivenza, di numerose specie marine. Tra gli animali a rischio anche i cetacei, che potrebbero veder compromettere le proprie capacità di orientamento e comunicazione.

La posizione dei governi e il ruolo dell’Italia

Attualmente 27 paesi stanno chiedendo una pausa precauzionale nelle attività di deep sea mining, evidenziando la necessità di ulteriori studi sugli impatti ambientali prima di procedere: tra questi la Francia e il Cile. L’Italia non ha preso una posizione ufficiale ma è presente nei negoziati dell’International Seabed Authority attraverso il gruppo A, accanto a potenze come Cina e Russia, in una posizione rilevante nel Consiglio che deve discutere un “codice minerario”, atteso da tempo, da approvare entro il 2025.

Nonostante il ruolo significativo giocato dal nostro Paese, la posizione del governo italiano è ancora ambigua, con alcuni ministri che invocano un approccio cauto mentre altri si dicono favorevoli all’estrazione, a patto che siano garantite misure di protezione adeguate. Greenpeace ha raccolto alcune dichiarazioni dei ministri italiani, che risultano «confuse e divise tra sfruttamento e tutela dei fondali», osserva l’organizzazione.

Il ministro Nello Musumeci (Protezione Civile e Politiche del Mare) dichiara di essere favorevole a patto che sia garantita la tutela dei fondali marini, ma senza spiegare come potrebbe questa essere effettivamente garantita; il ministro Adolfo Urso (Imprese e Made in Italy) afferma che nella legge sulla blue economy ci sarà spazio per tutte le industrie che lavorano con il mare, comprese quelle che si offrono per le estrazioni negli abissi.
E mentre la premier Giorgia Meloni sostiene che questa è una delle tante sfide che ci attendono, un dominio nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano, si mostra più cauto il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che in occasione della visita in Italia del segretario generale dell’ISA ha manifestato la necessità di approfondire le conoscenze scientifiche e di avere un approccio ecosistemico per lo sfruttamento delle risorse minerarie nelle zone di alto mare.

«Il nostro governo sembra oscillare tra la tutela e la possibilità di sfruttare i fondali marini», commenta Greenpeace. «In ogni caso, ad oggi l’Italia non è tra i Paesi che si sono schierati per una pausa precauzionale o una moratoria».

Molte aziende spingono per un via libera al deep sea mining

Numerose aziende stanno facendo pressione per ottenere i permessi necessari a iniziare le operazioni estrattive, sostenendo che le pratiche legate all’estrazione mineraria negli abissi possano essere meno dannose rispetto all’estrazione terrestre tradizionale. 

Secondo un’indagine di Greenpeace diffusa lunedì, in concomitanza con l’avvio dei negoziati in Giamaica, le aziende italiane potenzialmente interessate alle estrazioni minerarie negli abissi non hanno specifiche politiche sul deep sea mining, anzi alcune guardano con interesse all’avvio di questa nuova forma di sfruttamento delle risorse naturali.
Una situazione in netto contrasto con quanto avviene nel resto del mondo, evidenzia Greenpeace, dove grandi aziende – come Google, BMW, Volvo e Renault – hanno già preso posizioni contrarie allo sviluppo del deep sea mining.

Fincantieri è l’azienda italiana più propensa a sviluppare il deep sea mining, sostiene l’organizzazione ambientalista, tanto da aver già sottoscritto negli ultimi anni accordi di collaborazione per le attività estrattive sui fondali. Le altre compagnie italiane interessate alle materie prime critiche esaminate da Greenpeace sono: Saipem, Leonardo, MSC Crociere, STMicroelectronics, Energy SPA, FAAM, Trienergia, Stellantis, Alkeemia, Gaymarine, Drass e Gabi Cattaneo.

La Richiesta di una Moratoria e le Soluzioni Alternative

La richiesta di una moratoria temporanea o di un divieto completo è supportata da numerose organizzazioni non governative, dagli scienziati e da diversi governi.
Alcune organizzazioni, tra cui Greenpeace, hanno lanciato una petizione per fermare il deep sea mining fino a quando non si avranno dati chiari e misurabili sulle sue conseguenze: si può firmare qui.

Al momento, alcune soluzioni potrebbero permetterci di ridurre la dipendenza dai minerali di profondità: per esempio potremmo adottare criteri di progettazione più sostenibili per i prodotti tecnologici e incrementare i tassi di riciclo dei metalli dalle apparecchiature a fine vita.

I negoziati in corso rappresentano quindi un momento cruciale per la comunità internazionale, chiamata a garantire una transizione energetica sostenibile senza compromettere gli ecosistemi marini.

Valeria Capettini

Iscritta all'ordine dei Giornalisti, faccio parte della squadra di Meteo Expert dal 2016: un'esperienza che mi ha insegnato tanto e mi ha permesso di avvicinarmi al mondo della climatologia lavorando fianco a fianco con alcuni dei maggiori esperti italiani in questo settore. La crisi climatica avanza, con conseguenze estremamente gravi sull’economia, sui diritti e sulla vita stessa delle persone. Un'informazione corretta, approfondita e affidabile è più che mai necessaria.

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