Sovrappopolazione, risorse e clima: siamo troppi? O siamo in troppi a consumare troppo?
L’epoca attuale è dominata dalla nostra specie che continua ad espandersi, mentre nel resto della biosfera si assiste ad un allarmante declino della biodiversità
Il tema della sovrappopolazione umana ricorda un fiume carsico, uno di quei corsi d’acqua che per la maggior parte del loro tragitto scorrono in profondità, per emergere in superficie solo di tanto in tanto. Un argomento spinoso, scomodo, una sorta di tabù, che la divulgazione generalista tende ad evitare per non disturbare la sensibilità di troppe persone. Per quanto possa apparire bizzarro, sui nostri mezzi di informazione ricorre invece con una certa insistenza la preoccupazione per la denatalità.
L’Italia è sovrappopolata e il suo consumo di suolo è insostenibile. Secondo i dati elaborati dal Global Footprint Network nel 2019 gli Italiani hanno utilizzato risorse naturali pari a 4.5 volte le loro possibilità: detto altrimenti, servirebbero più di quattro Italie per soddisfare il nostro tenore di vita. |
Al lettore serviranno circa sei minuti per terminare la lettura di questo articolo: in questi sei minuti la popolazione mondiale sarà cresciuta di circa 1000 unità, pari a più di 200000 persone in un giorno, oltre 80 milioni in un anno. In un solo giorno, ogni giorno, sulla Terra si aggiunge un numero di abitanti superiore a quelli di una città come Brescia. Fatta 100 la massa di tutti i mammiferi che vivono sul pianeta, solo il 3% è costituita da mammiferi selvatici, mentre il restante 97% si divide tra esseri umani (30%) e gli animali che essi allevano per nutrirsi (67%). La nostra specie è apparsa circa 200000 anni fa: ci sono voluti circa 200000 anni per arrivare a contare un miliardo di persone (accadeva all’inizio dell’800), sono bastati 12 anni (dal 1999 al 2011) per crescere da 6 a 7 miliardi, mentre oggi siamo quasi 8 miliardi (cifra che sarà probabilmente raggiunta nel 2024).
Queste poche cifre parlano da sole: non a caso negli ultimi decenni tra gli studiosi si è acceso un animato dibattito sull’opportunità di denominare Antropocene l’epoca in cui viviamo. Comunque la si voglia chiamare l’epoca attuale è indiscutibilmente dominata dalla nostra specie che continua ad espandersi, mentre nel resto della biosfera si assiste ad un allarmante declino della biodiversità e ad una perdita irreversibile di specie che ricorda, quanto a proporzioni, le cinque grandi estinzioni rilevabili nella storia geologica del pianeta: quella in corso viene infatti ormai da molti studiosi denominata “la sesta estinzione”.
Da qualunque angolazione lo si osservi, ci sono pochi dubbi sul fatto che siamo di fronte a un problema spaventoso. Forse è proprio per questo che se ne parla così malvolentieri, è quasi comprensibile che si preferisca parlare d’altro. Perfino il cambiamento climatico appare meno preoccupante rispetto al pensiero di 10 miliardi di homo che si contendono le poche risorse rimaste (acqua, suolo fertile, minerali, pesci …) in un pianeta stremato da secoli di sovrasfruttamento, abusi e maltrattamenti. Ma naturalmente tutto è connesso, perché il nostro numero ha a che fare eccome con il cambiamento climatico: i numeri contano, e, specialmente se parliamo di cifre seguite da 9 zeri, la faccenda non può essere rimossa.
Approfondendo questi argomenti è facile cadere nello sconforto e nel pessimismo più nero; può essere difficile resistere alla tentazione di rifugiarsi in un cinico fatalismo, proprio nel momento in cui servono lucidità, razionalità e coraggio. E’ l’atteggiamento degli scienziati studiosi di queste tematiche, i quali da decenni lanciano moniti proponendo soluzioni per lo più largamente inascoltati, quando non apertamente osteggiati e perfino derisi.
Il caso del Club di Roma è ormai entrato nella Storia: nel 1972 un gruppo di scienziati guidati, tra gli altri, dall’italiano Aurelio Peccei, produsse il celebre “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, avvalendosi di calcoli rigorosi e delle conoscenze più avanzate del tempo. Nel loro famoso grafico una delle curve rappresenta proprio l’andamento della popolazione umana che era prevista crescere fino a circa il 2030, per poi declinare come conseguenza della scarsità di risorse e dell’aumento dell’inquinamento. Molto più recentemente un articolo di due studiosi, pubblicato nel 2017 su “Environmental Research Letters”, si guadagnò una fugace visibilità anche sulla stampa generalista per aver sollevato il tema del numero di figli in relazione alla mitigazione del cambiamento climatico. I due scienziati suggerivano quattro fondamentali azioni largamente applicabili per ridurre in modo sostanziale le emissioni umane climalteranti: la prima, e di gran lunga la più efficace, è avere un figlio in meno (secondo i loro calcoli in una nazione sviluppata questa azione corrisponde a risparmiare annualmente ben 58.6 tonnellate di CO2 equivalente). Le altre azioni suggerite, in ordine di decrescente importanza erano eliminare l’automobile (2.4t all’anno), evitare di viaggiare in aereo (1.6t per ogni volo transatlantico evitato) e una dieta vegetariana (0.8t risparmiate ogni anno). Si noti che l’enorme risparmio ottenuto grazie alla prima azione riguarda esplicitamente generare un figlio in meno in un paese ricco, vale a dire in una nazione del mondo sviluppato come la nostra. Questa puntualizzazione non è affatto un dettaglio e ci conduce in modo naturale verso un’ultima fondamentale riflessione, che faremo prendendo spunto da un recentissimo articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “Nature”.
Ecco come gli stessi studiosi sintetizzano il loro lavoro:
“Per oltre mezzo secolo, la crescita della ricchezza a livello mondiale ha fatto aumentare il consumo di risorse e le emissioni inquinanti molto più velocemente di quanto i miglioramenti tecnologici siano stati in grado di ridurre entrambi. I cittadini benestanti del mondo sono responsabili della maggior parte degli impatti ambientali e sono essenziali in qualsiasi futura prospettiva di rientro all’interno di condizioni ecologiche più sicure.(…) La transizione verso la sostenibilità potrà realizzarsi solo se gli avanzamenti tecnologici saranno accompagnati da profondi cambiamenti dello stile di vita. (…).”
Il senso di queste frasi è chiarissimo: la drammatica situazione di degrado ambientale in cui versa il pianeta è il risultato dello stile di vita di una piccola frazione di popolazione mondiale, quella benestante, che è anche quella che oggi fa meno figli. Sono queste persone (abitanti dei paesi più sviluppati, tra cui anche buona parte della nostra penisola) che devono farsi carico del maggiore sforzo per rientrare al più presto possibile all’interno dei limiti di sostenibilità e di sicurezza del pianeta. Naturalmente ciò non significa affatto che il problema demografico nei paesi in via di sviluppo sia sopravvalutato, anzi. Ogni persona di buon senso percepisce che gli scenari demografici previsti per alcune aree del mondo sono semplicemente apocalittici, non c’è altro aggettivo per esprimerlo: una nazione poverissima e già oggi tra le più densamente popolate come la Nigeria che nel 2050 potrebbe vedere raddoppiati i suoi abitanti (da oltre 200 a circa 400 milioni) equivale ad una bomba atomica innescata. Gli sforzi della comunità mondiale andranno senz’altro decuplicati per diffondere le pratiche contraccettive, ma ancora di più per l’educazione e l’emancipazione delle donne nelle nazioni in via di sviluppo (l’unica strategia veramente efficace contro le gravidanze numerose). E’ evidente che non si è fatto abbastanza e che la situazione attuale è il risultato di un atteggiamento spesso irresponsabile delle istituzioni locali e quanto meno distratto di quelle internazionali.
Tuttavia, la drammatica esplosione demografica tra i meno fortunati del pianeta non può e non deve farci rimuovere la scomoda realtà che ci riguarda: sono i figli dei paesi ricchi che pesano spropositatamente sul bilancio ambientale del pianeta.
Mi sia consentita una provocazione: paradossalmente, a dispetto delle assurde preoccupazioni sul calo delle nascite, come se le nazioni non avessero confini permeabili e fossero sistemi chiusi, è proprio nei paesi benestanti che si dovrebbero generare (ancora) meno figli.
Fonti e approfondimenti consigliati:
La crisi climatica condiziona una delle scelte più importanti: avere figli o non averne Consigli di lettura: “Il Green new deal” di Ann Pettifor Presentazione di “Dieci miliardi”, di Stephen Emmot Lewis, M. Maslin. Il pianeta umano, Come abbiamo creato l’Antropocene (2018) Wynes, K. Nicholas. The climate mitigation gap: education and government recommendations miss the most effective individual actions. Enviromental Research Letters Vol.12, 7 (2017) Wiedmann et al. Scientists’ warning on affluence. Nature communications 11 (2020) Elizabeth Kolbert, La sesta estinzione. Una storia innaturale (2014) |